Un incontro al Vascello di Roma
Salviamo il teatro!
Natalia Di Iorio propone un cartello per rivendicare il primato dell'arte e della cultura. E invece i teatranti litigano sul ponte del Titanic. Ecco cinque (modeste) proposte per costruire una rivendicazione comune
Come predicava Alberto Arbasino, un paio di settimane fa ho fatto la mia brava gita a Chiasso. Ma sono sceso prima dal treno: sono sceso a Milano. Sono stato a Palazzo Reale a vedere una mostra dedicata a Giotto: poca roba, ma provate voi a staccare Giotto dai muri di Assisi! Sono stato all’Arengario dove c’è il più bel museo sul Novecento d’Italia (lo dico con amarezza: ci sono meno cose che nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, ma sono sistemate meglio, meglio presentate, meglio valorizzate). Sono stato al Teatro Strehler arrivando con la metro e ritornandone con la metro: c’era la prima di uno splendido spettacolo di Bob Wilson dall’Odissea. Il giorno dopo sono stato a Expo (con la metro, ovviamente!): una magnifica Disneyland delle idee sull’architettura; ben organizzata e ben venduta. In quelle stesse ore, tre quotidiani affatto diversi tra loro (Corriere, Repubblica e Fatto) uno grillino della prima ora, uno grillino dell’ultima ora e uno semplicemente anti-romano costringevano il sindaco di Roma alla resa e alle dimissioni. Leggere questa tempesta in un bicchier d’acqua da Milano dava la giusta misura della cosa: Ignazio Marino ha pagato lo scarso senso civico dei suoi cittadini (comunque da lui molto mal amministrati). Tutto è capitato nel nome di un ideale di etica e di trasparenza che non sfiora nessuno, qui da noi in Italia (qualche giorno dopo un potente esponente della giunta fascio-leghista della Lombardia è stato arrestato in seguito ad accuse e a riscontri che quelli a carico di Marino, a confronto, fanno ridere). Ma almeno Milano è amministrata abbastanza bene: le strade sono abbastanza pulite, i trasporti funzionano abbastanza, i teatri sono abbastanza collegati (strategicamente) tra loro, la cultura è abbastanza rispettata. Abbastanza: tutto abbastanza. Ma è già qualcosa da cui ripartire.
Essere romani a Milano è una brutta esperienza.
Ma non avrei espresso qui questa mia opinione se ieri non avessi partecipato e assistito a un curioso dibattito sulla crisi della cultura teatrale a Roma e in Italia organizzato al Teatro Vascello da Natalia Di Iorio delle Vie dei Festival. Non siamo qui per lagnarci dei guai e delle vessazioni, non siamo qui per chiedere più soldi (anche se…), non siamo qui per lamentare ciascuno le proprie meraviglie mancate, ha detto Natalia Di Iorio aprendo la contesa: siamo qui per trovare una soluzione (e infatti il titolo della manifestazione era “Guardando oltre”…). Sennonché è andata proprio come la promotrice paventava e non voleva: è stata una lunga elencazione di torti subiti e meriti non riconosciuti. Peccato! Del resto, parte della discussione è stata catalizzata dall’intervento apocalittico di Massimiliano Civica (regista) il quale ha annunciato l’avvenuta fine del mondo (in effetti…) proclamando la sua intenzione di ritirarsi in eremitaggio artistico definendo tutti gli altri da sé «illusi o collusi». Senza via di mezzo. È toccato subito a un impresario di grande valore (se non il migliore, certo uno dei migliori) come Angelo Curti ribattere la propria verità all’apocalittico regista: nulla che non si misuri con il pubblico può camminare con le proprie gambe, e le migliori idee hanno bisogno di acqua lenta e costante per crescere; cattiva informazione, cattivo spirito critico e cattiva digestione non producono qualità né rivoluzioni. E apriti cielo! La discussione è finalmente decollata.
Col partito dei rivoluzionari da una parte e quello dei meditatori istituzionali dall’altro: di qua i teatranti furiosi con la politica ignorante e vogliosi di rivalsa, di là gli ex-politici a proporre strategie e concretezza. In mezzo, critici ragionevoli come Andrea Porcheddu o Paolo Petroni a cercare di riportare la discussione sulle rivendicazioni. E artisti come Carlo Cerciello e Manuela Kustermann a chiedere lumi e chiarezza: la battaglia è politica.
In effetti, sul banco degli imputati (non da ieri) c’è un regolamento voluto dai politici che ha squassato il teatro italiano: lo Stato si lava le mani della creatività artistica chiamando in causa meri criteri quantitativi (che fa valutare da una commissione fatta per lo più di presunti esperti collusi). E poi demanda agli enti locali il compito di conteggiare e sostenere economicamente il territorio, se non fosse che con l’altra mano lo Stato medesimo strozza gli enti locali togliendo loro ogni possibilità di manovra economica. Ergo: il teatro muore. Anzi, secondo una corrente e diffusa convinzione è già morto. Mentre i burocratici ridono di nascosto dopo aver posto le basi per ridurre i già esigui finanziamenti pubblici alla cultura.
Insomma, questa mezza riforma (mezza dal punto di vista formale: per evitare l’iter in uno dei Parlamenti più screditati e inetti della storia repubblicana si è puntato su un semplice regolamento) ha sancito ciò che da anni (trenta?, quaranta?) capita in Italia. Ossia che la cultura, l’arte, il senso critico e la memoria non hanno più dignità alcuna. La scusa la sapete: il liberismo propugnato dalla gaia coppia Thatcher/Reagan per salvare il capitalismo in agonia (da noi importata dal duo tragico Berlusconi/Bossi) ha allevato generazioni di occidentali con la convinzione che solo ciò che produce utile economico ha valore. Ne è nato il capitalismo finanziario. Ma tutto questo, come è noto, è solo un trucco per mettere a tacere la forza critica delle differenze, delle idee contro, delle discrasie: la verità è che non di soli affari si vive. O, meglio, quando di soli affari si vive ci si riduce come siamo ridotti: uno schifo. Moralmente ed economicamente. Perché la cosiddetta crisi prima finanziaria e poi economica questo ha dimostrato: che il primato del liberismo è deleterio anche per se stesso. Sennonché noi altri italiani oggi (con il consueto ritardo) a quello spirito perdente ci adeguiamo, imponendo alla cultura e all’arte la stupida legge del profitto, della quantità a scapito della qualità delle idee.
Va bene, è andata così.
Ed ecco che la truppa malandata dei resistenti (in questo caso i teatranti) si consuma chi lamentando le proprie meraviglie tradite, chi urlando (apocalitticamente) il proprio primato poetico non riconosciuto, chi allungando la mano al politico di turno sperando in un’elemosina in più da spendere per ritardare il coma. Perché il massimo che si possa ottenere, in queste condizioni, è di ritardare la fine certa del teatro. Spesso – non abbiamo più memoria, l’ho detto e ridetto fino alla nausea – si dimentica che il teatro è morto già una volta nella storia dell’umanità. E, guarda caso, per opera di un “regolamento” dell’epoca: ossia quando l’imperatore Giustiniano promulgò, nel 535 dopo Cristo il “Corpus iuris civilis”, un atto che – si badi – mirava a salvaguardare la morale dei romani morenti. E, oggi, non è per salvaguardare la morale del profitto che i nuovi imperatori stanno bandendo il teatro? I giochi sono fatti, verrebbe da pensare.
Sicché l’unica carta è protestare le proprie ragioni ideali da una parte e dall’altra rispondere con un contro-regolamento al famigerato regolamento che strozza la qualità in favore della quantità.
Primo: l’arte e la cultura devono tornare ad avere dignità di patrimonio della comunità, a prescindere dai ricavi.
Secondo: la politica (la cattiva politica d’oggi) deve ritrarre la mano da una gestione che vuole familistica delle cose dell’arte e della cultura (i cosiddetti consigli d’amministrazione, ne so qualcosa, sono zeppi di incompetenti, quando non di veri e propri inetti).
Terzo: lo Stato italiano deve investire risorse adeguate, certe e costanti in favore dell’arte e della cultura (il famigerato regolamento impegna le imprese teatrali a programmi triennali, ma li finanzia di anno in anno, senza che le imprese medesime abbiano la certezza delle risorse che avranno negli anni successivi).
Quarto: la moda dei bandi (tutto viene messo a bando, in Italia, come se anche l’arte fosse oggetto di contrattazioni mafiose e come se la corruzione s’accontentasse delle minuzie che vengono riservate ad arte e cultura) non può prescindere da criteri di valutazione certi e non numerici ma qualitativi. E (quattro bis) ci deve essere un organismo che vigili su queste commissioni giudicatrici, troppo spesso colluse, insipienti, saccenti.
Quinto: gli investimenti in arte e cultura devono essere detassati; nel senso che da decenni ci si viene a dire che la cultura deve rivolgersi ai privati per ottenere nuova linfa economica, ma poi la politica non fa nulla perché quegli eventuali privati che investano in cultura e arte vedano detassati i loro investimenti (con ciò considerandoli vantaggiosi, come succede in tutto il mondo occidentale).
È troppo chiedere ai teatranti di convergere su queste piccole/grandi cose? A sentire la discussione di ieri al Vascello, parrebbe di sì. Il che significa resa senza appello. E morte rapida: chissà se gli interessati se ne sono resi conto. Gli autoconvocati si sono ridati appuntamento il 9 novembre, sempre al Vascello: speriamo per guardare oltre davvero.