Paolo Ranfagni
La sconfitta dei Cinquestelle

Senato, chi ha vinto?

La battaglia per la riforma è finita: hanno avuto ragione sia il premier sia la minoranza democratica che in realtà hanno lavorato insieme per migliorare la legge. Ma la vicenda ancora non è finita

Chi ha vinto e chi ha perso nella battaglia del Senato? Sicuramente ha vinto Matteo Renzi, che si giocava tutto ed è riuscito a portare a casa l’approvazione della riforma, riappacificando pro tempore il litigioso partito democratico e ridimensionando lo spericolato contributo di Verdini a testimonianza di partecipazione di un gruppo dell’opposizione. Tutto ciò senza rimettere in discussione il fondamentale articolo 2, unica garanzia del superamento del bicameralismo paritario. Era il massimo che potesse fare e l’ha fatto.

Ha vinto però, e questa è una notizia, anche la minoranza dem, che, dopo l’operazione Mattarella, ci ha preso gusto, riuscendo a dimostrare che la velocità del giovane premier e il patrimonio di esperienza dei meno giovani parlamentari della minoranza dem non sono inconciliabili. Anzi, il risultato di questo incontro è stato un indubbio miglioramento della riforma. Uno dei principali artefici di questo successo è stato Vannino Chiti, che in compenso si è beccato gli insulti in aula dei pentastellati, i quali, evidentemente non conoscendolo, si erano illusi che puntasse ad affossare il leader del Pd, mentre invece cercava di migliorare la riforma del Senato.

È stata la vittoria del “metodo Mattarella”, ovvero del buon senso, secondo il quale una minoranza interna può giocare un ruolo decisivo nel costruire e indirizzare una soluzione, anziché contrapporsi cocciutamente a tutto quanto propone la sua maggioranza.

Ma soprattutto hanno vinto i riformisti veri, che finalmente riescono a intravedere il superamento di quell’assurdo bicameralismo paritario condannato a “generare mostri”, come sottolineato con forza da Giorgio Napolitano alla Commissione affari costituzionali del Senato. Il presidente emerito della Repubblica è un altro sorprendente vincitore di questa battaglia, per aver avuto il coraggio di scendere in campo ad ammonire a non riaprire la strada a un sistema che era stato la causa della fragilità dei governi e dell’incertezza della legislazione. La minoranza dem aveva ben presenti le preoccupazioni di Napolitano e non puntava ad affossare la riforma, bensì a migliorarla. E così, alla fine, è stato.

Tutti gli altri hanno perso: dallo sparuto gruppetto di peones in fuga dal Pd, alcuni già fuoriusciti e altri in procinto, a tutti i partiti di opposizione vecchia e nuova, con l’unica eccezione del gruppo di Verdini. Nessuno di loro voleva davvero migliorare la riforma, tutti erano interessati soltanto a fare lo sgambetto a Renzi. Più di tutti ha perso Berlusconi, che aveva avuto l’opportunità di presentarsi come il padre nobile di una destra riformista e invece si è tirato indietro a metà del guado, assecondando sciaguratamente pessimi consiglieri.

Vinta la battaglia del Senato, resta però ancora da vincere la guerra contro gli irriducibili fautori del bicameralismo paritario e dei suoi mostri, che non conosce uguali in nessun altro paese europeo. E’ una storia infinita, vecchia ormai più di settant’anni e ancora da chiudere. Infatti si dovrà tornare alla Camera per confermare il testo del Senato, poi affrontare la seconda lettura e infine superare il referendum confermativo. Un cammino ancora lungo e probabilmente non privo di sorprese, come ci insegna il passato.

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Tutto era cominciato alla Costituente, dove aveva prevalso la tesi della necessità di proteggere la giovanissima democrazia dalla tentazione di nuove avventure autoritarie. Serviva un salvagente e questo fu escogitato nel bicameralismo paritario: due assemblee legislative che svolgono separatamente le stesse funzioni, ma con diversi sistemi elettorali, numero di componenti, età degli elettori e degli eletti. Già allora c’era chi guardava lontano e nutriva seri dubbi sulla bontà di quel sistema, di cui già s’intravedevano una serie di controindicazioni, a partire dalla lentezza e farraginosità della legislazione. E ancora nessuno poteva immaginare che quel sistema sarebbe stato usato da epigoni disinvolti addirittura per ritardare e spesso bloccare il processo legislativo. Uno dei meno convinti era Palmiro Togliatti, firmatario di un emendamento che mirava, già allora, a destinare la seconda camera ai rapporti dello Stato con le future Regioni. L’emendamento fu però respinto, con la motivazione che non era stato ancora deciso quando le Regioni sarebbero diventate operative.

Non a caso quella proposta verrà rilanciata quarant’anni dopo, appena le Regioni affrontano la terza legislatura e si rendono conto che lo Stato centrale le snobba, trattandole come propri uffici periferici anziché soggetti di poteri legislativi. È il 1984 quando il presidente della Toscana Gianfranco Bartolini, coordinatore delle giovani Regioni, si presenta all’audizione della commissione bicamerale Bozzi con la prima proposta organica di trasformare il Senato in una Camera delle Regioni e superare così il bicameralismo paritario. Ma la proposta viene ignorata. Ci riprova, qualche anno dopo, Nilde Iotti dall’alto scranno della Camera, schierandosi con decisione contro il bicameralismo paritario e in favore di un Senato regionale, ma scatenando reazioni scomposte da tutti i partiti, a partire dal suo. Nel 1993 toccherà proprio a lei affrontare il problema in prima persona come presidente della commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Siamo sotto le macerie di Tangentopoli e nessuno ha più il coraggio di contrastare direttamente la proposta di un Senato regionale: così quasi tutti i partiti si dichiarano favorevoli al cambiamento, ma ciascuno a modo suo, che poi non era altro che il modo per non farne di niente. Quindi, nel 1996, è lo stesso Chiti, come coordinatore delle Regioni, a presentare un nuovo progetto alla bicamerale D’Alema. Gli anni passano e l’accoglienza è nuovamente ostile, soprattutto da parte del Pds.

Toccherà, curiosamente ma non troppo, a Berlusconi, nel 2005, riuscire ad approvare la riforma costituzionale per modificare il bicameralismo paritario, in ossequio alle richieste dell’alleato leghista. Per la verità si tratta di un pout-pourri indigeribile, che sancisce l’aumento dei poteri del primo ministro e la nascita di un Senato federale del tutto sganciato dalle Regioni, ma ne rimanda l’attuazione di due legislature, in modo da tranquillizzare i senatori. La riforma, sottoposta l’anno seguente a referendum popolare, verrà bocciata.

Un avviso, fin d’ora, per Matteo Renzi che questa storia è tutt’altro che finita.

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