Uno scrittore lontano dalle mode
Assoluto Permunian
Francesco Permunian torna con «Ultima favola» e «La polvere dell’infanzia», tra narrativa e auto-fiction, due libri che si consumano alla ricerca del senso della vita e della morte
Scrittore per palati finissimi e fedele a se stesso come pochi, Francesco Permunian ritorna in libreria con due libri diversi ma complementari: Ultima favola (Il Saggiatore, pp. 178, € 16) – titolo da intendere come “favola delle cose ultime” – e La polvere dell’infanzia (Nutrimenti, pp. 159, € 15), sintagma che il lettore fedele di Permunian ha già incontrato ne Il gabinetto del dottor Kafka (Nutrimenti, 2013), in cui questa polvere, appunto, ricopre chi sta «entrando nell’ombra». Ancora la morte, dunque: che, insieme alla più ilarotragica corporalità, al sogno (o, meglio, all’incubo), alla ricerca blasfema dell’assoluto, alle note alte della follia, allo strazio del ricordo completa il ventaglio dei temi ricorrenti, con cadenza ossessiva, nei romanzi dell’autore veneto.
Fortunatamente inclassificabile perché innervata di reale e grottesco, di fiction e autobiografia, di diarismo e saggismo, la scrittura di Permunian prende su di sé l’etichetta di “romanzo” riconducendola non certo alla griffe che pur nuova legge di marketing impone bensì all’archetipo bachtiniano del genere romanzesco, tramato d’umori satirici, voci plurime (magari dialoganti sull’estrema soglia), mescolanze ardite di sacro e profano, sublime e scurrile, realtà e sogno. Nessun problema, allora, ad usare quest’etichetta per un libro felicemente complesso come Ultima favola, mentre La polvere dell’infanzia è più esplicitamente un collage di ricordi, ritrovamenti d’archivio, documenti scritti e fotografici, con l’aggiunta d’un commovente petit poème en prose dedicato alla morte precoce della donna amata: ambientato nel Polesine d’infanzia e adolescenza, è caratterizzato dagli umori invincibili d’una provincia che «dietro alla linda facciata di perbenismo cattolico, emana uno spaventoso odore di sacrestia e di vacche al pascolo».
Detto, dunque, di quanto sia raccomandabile La polvere dell’infanzia anche per i lettori attenti alla tendenza di alcuni scrittori italiani d’oggi a restituire, tra memoria e documentazione, il vissuto più o meno recente dei luoghi che meglio conoscono, conviene concentrarsi su Ultima favola: romanzo in cui le tendenze fondamentali della narrativa di Permunian sembrano quasi arrivare a un punto di non ritorno, anche per la forza iperbolica con cui i personaggi monomaniaci e spiritati che s’affollano intorno al protagonista portano alle estreme conseguenze talune caratteristiche fisse, riconducibili ai suoi romanzi precedenti: l’oscillare continuo tra religione della memoria come custodia dei sentimenti più puri e tentazione dell’oblio come medicina per quegli orrori del presente che hanno solide radici nel passato individuale e collettivo; la capacità di far convivere il gusto dell’oltranza linguistica coprolalica o blasfema con la delicatezza del ritmo che compone la pagina secondo i dettami della prosa poetica (ne consegue una capacità di percorrere – dall’alto al basso e viceversa, senza tregua – i gradini d’un’ideale “scala dello stile” con un’agilità non facile da trovare nelle patrie lettere dopo, per esempio, la scomparsa di Gesualdo Bufalino); un’ostinata “religione della letteratura”, veicolata tramite ammiccamenti più o meno espliciti ai grandi maestri del nichilismo di pronuncia più “alta” e radicale, che non esclude però la capacità di mettere in burla, affettuosamente, anche quegli stessi modelli letterari.
Il romanzo si presenta come una congerie di appunti, accumulati per incoraggiamento d’uno psicanalista (ma senza la sfiducia ironica d’un Zeno Cosini), che però non ha quasi mai la cadenza del diario, anzi si struttura come una narrazione di vicende che riguardano prevalentemente altri personaggi orbitanti intorno all’io narrante, Ottavio Dentamaro, che ha seppellito molte ambizioni intellettuali lavorando nella redazione d’un oscuro giornale della provincia trentina e riducendosi a vivere con una nonna, sia pure molto arzilla e piantagrane. Salvo poi investire la buonuscita nella gestione d’un agriturismo sorto a margine d’un luogo di improbabili apparizioni mistiche: e in questa parte del libro la satira di Permunian si fa sempre più corrosiva e sconsolata.
Una narrazione molto sui generis, come s’è detto, intervallata da epigrafi e note a pie’ di pagina, precipitante verso un suicidio equoreo che, naturalmente, non può giustificarsi sul piano della verosimiglianza narratologica ma ci sorprende come una conclusione brusca eppure inevitabile, arrivata non appena Ottavio trova la forza di pronunciare per intero il nome della moglie defunta, la cui voce fantasmatica lo ossessionava già da tempo.
La «fatica immane» di rappresentare «il trascorrere del tempo e la quotidiana, inesorabile e malinconica erosione della memoria» va portata a termine perché per Ottavio (per Permunian) «solamente di ciò vale la pena di scrivere». Una vocazione quasi religiosa che però non implica alcun salvacondotto: «non passa giorno senza che io li riesumi e li coltivi amorevolmente, i miei ricordi, tanto che assomiglio ormai a un giardiniere. Il giardiniere dell’orrore». Una disperata religione della memoria, dunque: e «intanto va, paurosamente va, il mormorio di questo tempo miserabile e allucinato». E noi lettori affatturati seguiamo il pifferaio Permunian fino all’orlo del precipizio, sui bordi del Nulla.