A Roma, “La forza delle rovine”
Macerie o Rovine?
A Palazzo Altemps, una singolare mostra mette insieme frammenti diversi provenienti dal passato e dal presente per riflettere sulla capacità dell'arte di esprimere emozioni e illusioni
Bella l’idea che ha spinto gli archeologi della Soprintendenza romana ad uscire dalla torre d’avorio della loro specializzazione per interrogarsi ed interrogarci sul senso di quelle rovine che devono preservare dall’usura impietosa del tempo, catalogare, ordinare, studiare, ed offrire alla vista. E poi a condensare tutte queste domande in una mostra, La forza delle rovine, in cartellone fino al 31 gennaio, ambientata in un museo come Palazzo Altemps che è scrigno prezioso dei tesori di marmo sottratti cinque secoli fa al destino del grandi monumenti della Roma antica, da cui sono riaffiorati, e infine consegnati come chimere da esibizione alla passione antiquaria e ai capricci della famiglia Ludovisi e di altri illuminati collezionisti di sangue blu.
Una sorta di doppio sogno camminare nelle sale di questa dimora splendidamente restaurata dove l’algida bellezza di quelle statue e quei cimeli si confronta con altri materiali disseminati per l’occasione lungo il percorso. Altri voli di fantasia, altri prodotti d’arte, dalla pittura, alla musica, dal cinema alla fotografia, che da quei modelli hanno tratto misura e ispirazione. A volte analogie per dilatarne l’aura profetica al presente o all’ieri recente per raccontarci, scolpire con gli stessi o simili segni nella memoria i disastri e i massacri della guerra, dei bombardamenti, del terrorismo, le ferite e i disastri delle sfruttamento ambientale, i relitti dell’archeologia industriale.
Sogni e incubi. Perché la prima vera «forza» delle rovine è la loro capacità di restituirci il senso della storia e del tempo nelle vesti camuffate e ambigue dei sogni, un accavallarsi di echi di ragione e sussulti d’inconscio. Uno spettacolo che ci riporta insieme la voce della Specie, che ci induce a preservare i resti e i monumenti del passato come prove di un ineludibile, numinoso istinto di sopravvivenza collettiva, e le vibrazioni d’incertezza e spaesamento del nostro io più profondo.
Ecco così il pezzo più bello della piccola cineteca allestita nel teatrino di palazzo Altemps è una scena del film Roma di Federico Fellini. Il pungiglione della talpa meccanica che sta scavando la galleria del metro abbatte un muro. E rivela una parete coperta di affreschi di una domus romana. Un incanto di pochi secondi. Esposti all’aria colori e figure si dissolvono, spariscono. Fermateli, fate qualcosa, urla una giornalista. Lo stesso grido di disperazione e impotenza che è risuonato di fronte alle distruzioni dell’Isis a Palmira.
Ed ecco invece il senso profondo di solitudine e di surreale teatralità che ci investe in due quadri anni Trenta inseriti lungo le gallerie di marmi antichi rifatti secondo la moda del Settecento con l’innesto di teste e arti di altre statue. Nel primo di Carel Willink, intitolato Gli ultimi visitatori, tre individui si aggirano in un palcoscenico di archi, colonne, capitelli crollati. Quello in primo piano, indossa un abito da sera, e sembra chiederci: perché la mia festa, la festa di queste imponenti reliquie sono finite? Nel secondo, una tempera di Arturo Nathan, un uomo di spalle con cappello fissa l’orizzonte del mare, seduto su una lastra di marmo, alle sinistra altri resti antichi: davanti un futuro che non si lascia afferrare, di fianco un tempo perduto per sempre.
Nelle rovine il flusso inesorabile della Storia che avanza ci impone sempre in modo implacabile una condizione di spettatori sospesi, incapaci di andare avanti e liberarci del bagaglio di ciò che stiamo perdendo, di sicuro non possiamo resuscitare e forse non sappiamo già più cosa farne. La diagnosi più inquietante in una gigantografia fotografica di Lori Nix, datata 2007: Library. Lo sfondo è quello di una libreria imponente come una cattedrale, scaffali pieni di libri che si innalzano a più piani verso l’alto come colonne e pareti di una cattedrale. Il tetto è crollato e scoperchiato. Il fronte è scandito da due alberi frondosi, invaso da detriti. L’autore ha fabbricato questa scena in miniatura, poi ha scattato una foto, a imprimere a questa fantasia il sigillo e l’illusione del qui e ora.
Non è sempre stato così ci spiega con grande efficacia questa mostra con un campionario di quadri del Seicento e del Settecento, arricchito da una suggestiva galleria interamente dedicata alle stampe di Piranesi. Anche nei secoli che hanno scandito la riscoperta del mondo antico la visione delle vestigia ha generato capricci: idilli di mondi campestri tra quinte di monumenti ritratti dal vivo ma poi assemblati ad estro come quinte per aumentare l’effetto. Ma allora quest’uso distorto, queste licenze d’autore, erano il segnale di una volontà ben precisa di distillare dalla maestosità del passato moniti, insegnamenti, regole di vita, modelli di riferimento per costruire la città e la società del presente.
Il Novecento e la modernità hanno avvolto lo spettacolo delle rovine nella nebbia del dubbio. Può essere il mistero evocato dalla tela di De Chirico inserita in esposizione: un tempio greco che svetta come un mobile ad abitare un interno disalotto. O la tonalità di giocosa malinconia delle maschere che altri due quadri di Gino Severini fa muovere su una ribalta di un colonnato romano. Sogni anche questi, ma sovraccarichi di rimpianto, depurati di ogni speranza.
Sono gli orrori del «secolo breve», le devastazioni delle due guerre mondiali a mutare e indirizzare verso undiverso significato la realtà e la percezione stessa delle rovine. Quelle che emergono dai bombardamenti a tappeto di Berlino, Londra e altre città sono solo macerie, scorie di vie, di palazzi di vite ridotte a frammenti, schegge che rimandano la stessa agghiacciante desolazione del tappeto di corpi straziati dipinti da Guttuso nel quadro esposto nel capitolo dedicato all’ultimo conflitto mondiale. Peccato che manchino in mostra immagini del dopo Hiroshima, una città dissolta in un fungo chr si innalza nel cielo. Avrebbe reso ancora più chiaro che quei deserti di detriti sono tutt’altra cosa dalle rovine del mondo classico, che conservano e rimandano , qualunque sia il loro stato di conservazione ancora il sapore della forma originaria. Quella forza che in mostra vediamo sprigionare dal busto amputato del Polifemo, tra i cimeli più noti di palazzo Altemps, al confronto con le infinite imitazioni che ha partorito, dal Cristo in agonia del fiammingo Jan Gossaert alle erotiche torsioni di muscoli delle foto di Robert Mapplethorpe.
Chiamiamole macerie dunque. Sarà così più facile riflettere sulle icone di altri disastri che i curatori ci fanno sfilare davanti agli occhi: la Beirut della guerra civile fotografata da Basilico, i muri rimasti in piedi dopo il terremoto di Gibellina, una palude punteggiata dai resti di pozzo di petrolio abbandonati, una fantomatica fabbrica in disarmo di Detroit intravista dalla ragnatela di crepe di una finestra.