Il Nobel a Svetlana Aleksievic
Letteratura in diretta
Il “reportage polifonico” conquista l’Accademia di Stoccolma che assegna il premio alla scrittrice bielorussa, dal 2000 esule a Parigi. Nelle sue opere l’esposizione letteraria apre il campo al pezzo giornalistico come prova diretta, quasi istantanea, della contemporaneità. Del Noi e dell'Adesso...
Svetlana Aleksievic, giornalista e scrittrice bielorussa, è il Premio Nobel per la letteratura 2015. L’Accademia svedese l’ha premiata «per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo». In Italia a oggi sono stati tradotti quattro suoi libri: Preghiera per Cernobyl, Ragazzi di zinco, Incantati dalla morte tutti per e/o edizioni; Tempo di seconda mano per Bompiani, che presto pubblicherà anche Il volto non femminile della guerra. A causa dei frequenti attacchi al regime instaurato dal premier Aleksandr Lukašenko, nel 2000 è costretta a lasciare il paese perché su di lei grava l’accusa di connivenza con la Cia. Da quel giorno è in esilio a Parigi.
La motivazione della sua investitura è perfettamente divisa in due linee di pensiero all’apparenza sganciate tra loro: il presupposto estetico e la testimonianza politica. La “scrittura polifonica” – che ricorda da vicino la celebre definizione che Michail Bachtin diede del romanzo di Dostoevskij, messo in moto da concezioni del mondo talora opposte a quelle dell’autore – fa riferimento al reportage del racconto assoluto, all’interno del quale sono chiamati a dare affermazione di sé contadini, studenti, operai, un po’ come fece Solženicyn in Arcipelago Gulag. Il racconto è sintesi dell’esperienza della vita, è a servizio della vita stessa, tiene conto nella realtà russa dell’insolvenza del rinnovamento promesso dalla Perestrojka. A ben vedere questo presupposto estetico è un non presupposto, o meglio è un presupposto non puramente estetico. Con tale osservazione non vorrei dare un giudizio, ma porre un problema. Parimenti alla scelta di Le Clézio nel 2008, siamo di fronte a una scrittrice che apre il campo dell’esposizione letteraria in direzione del pezzo giornalistico come prova diretta, quasi istantanea, della contemporaneità, e verso la cosiddetta autofiction; un’autofiction però atipica, perché non vede nell’Io l’unico gerarca capace di muoversi entro il terreno sgusciante dell’esistenza, ma il Noi.
A questo convincimento teoretico, d’impostazione narrativa per così dire, si salda perfettamente la testimonianza politica: il Noi è l’Adesso, e porta con sé dei problemi concreti, evidenti, delle sofferenze e delle lacerazione vive. Le domande sono: in crisi, o per lo meno in “palingenesi”, è anche il romanzo, colto nella sua istituzione di genere d’inventiva, non solo la poesia? Le ingerenze politiche fino a che punto restano “ingerenze” e non determinano l’ossatura della composizione di un testo?
Credo che dovremmo abituarci, soprattutto in Italia, sempre di più a Nobel di questa ascendenza, audaci nel lanciarsi dentro la mischia delle asprezze e dei mutamenti che ci circondano senza porsi più il problema del come scrivere, ma adottando l’immediato, cioè il privo di mediazioni, quale strategia privilegiata e vera filosofia del presente. Una prosa totale, priva di fronzoli, amorevolmente incrinata nell’immanenza, che corre il rischio di sparire con maggiore rapidità con cui è stata costruita, e che rammenta – personale opinione – alcuni tratti dell’opera prefigurativa di Luciano Bianciardi.