Lidia Lombardi
“Sicario” da oggi nelle sale

Messico inferno

Un thriller mozzafiato quello di Denis Villeneuve. Che affronta la brutale realtà dei narcotrafficanti e della droga, spina nel fianco degli Usa, ma non solo. Con Emily Blunt e Benicio Del Toro, più che convincenti

«Ho capito che il Messico non esiste più, il Messico in cui potevi entrare tranquillamente in auto è scomparso. È diventato un luogo in preda all’anarchia». Lo dice Taylor Sheridan, attore (si ricorda nel ruolo di David Hale in Sons of Anarchy), texano, dunque abituato, negli anni giovanili, ad attraversare quel confine verso una terra rigogliosa e pittoresca. Sheridan ora ha firmato la sceneggiatura di un film forte e spettacolare, Sicario, presentato al Festival di Cannes e diretto dal canadese Denis Villeneuve che ha firmato tra l’altro Prisoner e La donna che canta. Un thriller, sì, che tiene lo spettatore aggrappato alla poltrona. Ma anche un tuffo nei precordi più bui, nel fondo del male, dell’ambiguità, del degrado di un popolo in balia di una corruzione – della politica, delle forze dell’ordine – inimmaginabile. È il Messico dei cartelli della droga, il Messico di Juarez, la città subito dopo il confine con gli Usa in cui cadaveri mutilati sono appesi sulle strade dove formicolano gli abitanti, monito a chi sgarra con i narcotrafficanti che operano tra Messico e Usa. Una realtà distante dalla nostra Europa alle prese con gravi nodi epocali, l’Isis, l’immigrazione dall’Est. Ma che invece bisogna conoscere, perché quel traffico è una spina nel fianco degli States e quella droga, frutto di compromessi e di un milieu senza tetto né legge, arriva anche da noi.

S_D037_09788.NEFAl centro della storia Kate Macer (Emily Blunt), agente dell’Fbi che in seguito all’epilogo agghiacciante di un caso di sequestro – allorché trova in una villa nella quale fa irruzione decine di cadaveri murati – viene ingaggiata in una task force d’élite del governo statunitense per contribuire alla lotta contro il traffico di stupefacenti. Deve essere spregiudicata, mettere da parte l’etica professionale, andare per le spicce, adeguarsi a collaborare con personaggi pieni di ombre. Il fine giustifica i mezzi, anche se sono mezzi che Kate non vorrebbe mai adottare. È qui il secondo livello narrativo della pellicola: l’altalena di dubbi, il malessere che Kate (con qualche ingenuità della sceneggiatura riscattata però dalla introspettiva recitazione) vive a contatto con i suoi compagni di avventura: Matt Graver (Josh Brolin), agente in infradito e senza scrupoli della Cia, e soprattutto Alejandro (un disincantato Benicio Del Toro), consulente colombiano che ha un passato buio, dopo che i narcos gli hanno sterminato la famiglia. È lui il sicario, contro il quale a un certo punto Kate cercherà di ribellarsi arrivando a puntargli contro un’arma. Ma è anche la chiave di volta di un plot che si risolve senza vincitori né vinti e senza sciogliere, anzi scavandoli e non trovando soluzione, i dilemmi morali dei personaggi coinvolti. «Ho pensato ad Alejandro come a un personaggio quasi shakespeariano», dice Sheridan. «Si esprime con soliloqui che sono analisi acute del mondo in cui vive e che colpiscono qualcosa in Kate, ma lui stesso è parte del mondo che descrive».

Sicario 3Lo sfondo della pellicola (distribuita da Leone Film Group e Rai Cinema) contribuisce alla suggestione e al raccapriccio. Ciudad Juarez, la città più violenta del mondo, si stende con migliaia di tetti in una waste land assolata, dove non c’è mai ombra perché non esiste vegetazione e le case hanno lo stesso colore del paesaggio petroso in mezzo al quale sono state tirate su. Eppure, le mamme portano a scuola i ragazzini e poi questi, a frotte, riempiono un piccolo campo di calcio, mentre accanto qualcuno imbraccia il fucile. Perché il rumore delle mitragliatrici, delle pistole è un sottofondo comune, sottolineato dalla potente colonna sonora di Johann Johannsson. Come in una delle scene meglio costruite del film, la sparatoria tra i componenti della task force e sicari del narcotraffico che li intercettano sulla autostrada di confine dove le vetture e i camion sono incolonnati a causa di un incidente apposta causato dai boss per fermare le auto degli investigatori. Qui la cinepresa, sorretta dalla fotografia di Roger Deakings, indugia su riprese dall’alto in una luce solare quasi metafisicamente accecante. Gli fa da contraltare il tunnel attraverso il quale i protagonisti passano per raggiungere il cuore delle centrale di spaccio. Il buio sottoterra e nell’animo. Senza riscatto.

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