Alle Terme di Diocleziano
Perturbante Moore
Roma torna a riflettere uno dei padri della scultura del Novecento. La grande mostra dedicata a Henry Moore lo rilegge a metà strada tra i classici e la storia drammatica del secolo
Il perturbante. Fu lo stesso Henry Moore (1896-1986) a usare questo termine (coniato da Sigmund Freud in un famoso saggio su Schnitzler e il “complesso di sosia”), un aggettivo trasformato in sostantivo, per battezzare quel sussulto segreto, quel rigurgito di vitalità che ha fatto da bussola alla sua attività di scultore. E sceglierlo come metro di misura delle opere dei grandi maestri del passato con cui si confrontava e da cui ha tratto stimoli e ispirazione. Il perturbante è una sorta di nota stridente che spinge a scardinare le regole dell’armonia e della simmetria, la perfezione dell’idea insomma, per dar risalto al conflitto, alle contraddizioni e cogliere il senso della vita e della realtà.
Lo scultore di origine irlandese, figlio di una modesta famiglia di minatori, ne avvertiva la mancanza nel levigato distacco delle opere ellenistiche, che non amava. E la presenza invece in quelle di Michelangelo, specie le ultime quando il suo immenso talento d’artista e di pensatore cominciava a sentirsi addosso il respiro della morte. O nelle forme inventate dall’arte arcaica e dalle civiltà preclassiche, che ebbe occasione di ammirare al British Museum a metà Anni Venti quando era ancora un giovane borsista, e che furono il primo stampo della sua ribellione antiaccademica.
Quel termine, perturbante, può farci ora da preziosa guida per visitare la grande mostra che la soprintendenza archeologica in collaborazione con il Tate Museum di Londra gli dedica, fino al 10 gennaio, spalancando a oltre un centinaio di opere tra bronzi, sculture in pietra, disegni e altri lavori su carta, le grandi aule delle Terme di Diocleziano e il confronto ravvicinato con i marmi, i sarcofagi e i cimeli del mondo romano, custoditi nel museo, che tanto hanno indirizzato la sua iconografia. Una rilettura importante. Perché cade a vent’anni dall’ultima grande esposizione italiana alla fondazione Cini di Venezia allestita poco dopo la sua morte, colmando un vuoto d’attenzione che copre l’arco di generazione. E dialoga con un pubblico che mal lo conosce, magari l’ha ingiustamente dimenticato e forse qui ha l’occasione di scoprirlo o riscoprirlo al riparo da quella fama un po’ fastidiosa, che lo aveva incoronato in vita come il più grande scultore del Novecento.
Regge ancora quello scettro che gli hanno assegnato, da quando nel ’48 a Venezia, vinse il primo premio per la scultura? A usare il metro del «perturbante» probabilmente no. Oggi Henry Moore ci parla con l’autorevolezza di un maestro classico che ha perso l’aura della trasgressione, quegli echi dissonanti cui teneva tanto, La sua grandezza è piuttosto nel talento, nella fantasia, nella forza dispiegata nel ruolo di interprete e traghettatore capace di cucire insieme molte delle tendenze più innovative del suo tempo, dal surrealismo, al cubismo, dalla ricerca di modernità alla grande passione per forme e volumi delle culture arcaiche, dall’irruzione prepotente dell’inconscio all’utopia e alle illusioni di un progresso imminente, protetto da quel senso di relatività nel quale siamo sprofondati. Poggia sulla sua capacità di costruire un ponte tra il passato, la tradizione della migliore scultura e un futuro di forme fluide ma in bilico tra figura e astrazione e ancora in grado di offrirsi senza mediazioni all’emozione e alla comprensione di un pubblico numeroso e poco addestrato.
Per afferrarne il peso, insomma, il perturbante di Moore va riportato alla storia che l’autore ha attraversato. Non tanto la Prima Guerra Mondiale, che pure quasi gli costò la vita al fronte, avvelenato dai gas tossici scaricati sulle trincee di Cambray, e che coincide con il suo periodo di apprendistato e gestazione. Ma la Seconda Guerra Mondiale, di cui, ormai artista maturo, era in grado di rileggere insensatezza ed orrori. Davvero indimenticabili quei disegni su commissione dei rifugi antiaerei londinesi, e in particolare quello scorcio di tunnel del metrò che si perde nell’oscurità, affollato di corpi distesi, deformati dall’angoscia, sospesi tra la vita e la morte come le statue giacenti sui sarcofagi etruschi e romani che lo avevano folgorato nel primo dei suoi tanti soggiorni in Italia. Inquietante quel soldato in bronzo inizi Anni Cinquanta, esposto nel cortile delle Terme, inarcato in una sofferenza che non riesce a combattere, un volto che sembra una maschera antigas, gli arti mutilati che vacillano nel vuoto. Denso di emozioni quel campionario di figure distese, un leit motiv ricorrente che accompagna Moore sin dagli Anni Trenta, e al quale la mostra riserva un intero capitolo: un miracolo d’equilibrio e di sintesi in quelle forme tondeggianti che si rifanno al repertorio dei sepolcri classici, ma anche un modo vorticoso e davvero unico, mai visto prima, di originare vortici di vuoto da quel massiccio assemblaggio di masse.
L’altro leit motiv è quello della madre con bambino, un tema sacro riletto in tutti i suoi problematici risvolti psicanalitici, Tra i tanti bronzi in vetrina anche quello di una madre che volge le spalle al figlio e quello di un bimbo serpente che cerca di azzannare la mamma. Il balzo successivo, verso i grandi monumenti all’aperto che consacrano il successo internazionale di Moore, è già implicito in queste ricerche. Le sculture di Moore hanno bisogno d’aria per trovare ulteriore respiro. E devono ampliare la loro scala, dilatarsi a monumenti appunto, per misurarsi col cielo, gareggiare con la Natura cui hanno sottratto forme. La mostra si chiude con la citazione di uno dei più noti capolavori di Moore, in vista dalla fine degli Anni Cinquanta, sul piazzale di fronte alla sede parigina dell’Unesco. Un gigante di pietra inamovibile che torna a dar vita alla sagoma di un uomo sdraiato. Al suo posto i curatori hanno portato in scena un modello in bronzo. L’impatto è forte, ma la lucentezza levigata del metallo imprigiona lo sguardo, mortifica la penetrabilità e l’instabilità dei suoi volumi. E attenua gli echi del perturbante. L’omaggio a Moore formato museo sconfina nel tradimento.