Lettera dal Dodecaneso
L’osteria di Leros
Dal passato fascista al presente sospeso tra grexit e migranti. Le isole egee sono diventate un crocevia di vecchie storie e nuove contraddizioni. Fino alle tragedie di oggi
Davanti a me, ciò che resta di quello che una volta si chiamava Albergo Roma; accanto – e in migliori condizioni – l’edificio a tronco di cono del cinema-teatro, entrambi opera dell’architetto Armando Bernabiti. Attraverso i vani oscuri delle finestre, ormai ridotte a orbite vuote, si intuisce che l’ex albergo ha inopinatamente ritrovato la sua funzione originaria. Panni stesi ad asciugare, qualche figura umana che ogni tanto si affaccia: sono gli emigranti, o “migranti” in fuga dalla Siria. Del resto, la costa turca dista poco più di 21 miglia nautiche: circa 34 km, una distanza che con un normale motore fuoribordo si può percorrere in 2 ore. Le condizioni meteorologiche sono eccellenti; non è stagione di meltemi e il mare è calmo: una traversata ben diversa da quella attraverso lo Ionio, dalla Libia alla Sicilia.
A occhio i profughi si contano in migliaia, e sono dovunque: distesi per terra nelle aiuole o sui marciapiedi, seduti dove è possibile: sulle panchine, sul parapetto che costeggia la passeggiata lungomare, ai tavolini del bar dove è apparso qualche narghilè… In generale, hanno tutti un aspetto decoroso, parlano tra loro sommessamente, e molti hanno l’aria stremata. Per lo più sono uomini giovani – al di sotto dei quarant’anni – e soli. Ma sono numerosi anche i nuclei familiari: alcune donne sono incinte. Quanto ai bambini, in generale non hanno ancora raggiunto l’età dell’adolescenza. Pochi gli anziani: mi resta nella memoria il viso disperato di una vecchia che ha perso tutto e ha davanti a sé soltanto il vuoto.
Non lontano da questo luogo, a Kos, ci sono stati disordini gravi; ma qui la situazione è calma, la polizia non si vede, e i nuovi venuti formano una massa composta e distinta dalla popolazione locale, con la quale interagisce soltanto nei negozi di generi alimentari, o nelle agenzie di viaggio. Mentre li osservo, mi rendo conto della violenza con la quale i media banalizzano la realtà. Durante questa estate soltanto due letture di questo processo epocale sono state proposte: quella «umanitaria-progressista» (compassionevole/pietistica) e quella «legalistica-conservatrice», sostanzialmente reazionaria, legata com’è al tema della sicurezza ecc. Certamente provo una forte solidarietà con questa gente, e non mi sento per nulla minacciato; ma c’è di più. A un tratto comprendo di essere di fronte ad un capitale umano straordinario, e destinato a giocare nel lungo periodo un ruolo importante. A beneficio di chi l’avrà saputo comprendere per tempo.
Sono a Portolago, la nuova città costruita dagli italiani in una piccola isola delle Sporadi meridionali, che una volta erano note come il Dodecaneso. L’isola si chiama Leros, e per un visitatore attento costituisce una singolare combinazione tra un passato malinconico e allo tesso tempo tragico, e un presente confuso e quasi certamente disastroso. Come accade spesso, il fascino dell’isola nasce dal contrasto tra questo quadro e quello naturale: il paesaggio è languido e seducente, le montagne sono brulle ma non severe o minacciose, e le coste sono un susseguirsi sorprendente di baie profonde al punto che nel mezzo dell’isola il lato orientale e quello occidentale sono separati soltanto da un istmo largo 1 km.
Come Leros sia finita sotto la sovranità italiana è presto detto. Qui erano già arrivati – ovviamente – i Veneziani, ai quali si deve il castello che domina Aghia Marina; poi fu la volta degli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme e infine sopraggiunsero i Turchi, che governarono incontrastati fino agli inizi del secolo XX. Quanto a noi, tutto ha inizio con la cosiddetta Operazione Bomba: una vicenda che merita d’essere ricordata. Il 24 settembre 1911 Giolitti ottiene dal re il consenso per l’invio di un ultimatum alla Sublime Porta: ha inizio il progetto di conquista della Tripolitania e della Cirenaica. Vale la pena oggi ricordarne le motivazioni. Così scriveva ad esempio Enrico Corradini nel suo saggio L’ora di Tripoli: «L’Italia deve diventare imperialista, acciocché non si chiudano tutte le aperture attraverso le quali entra l’ossigeno che permette alla nazione di respirare a lungo; la soluzione del problema dell’emigrazione va vista nella conquista della Tripolitania; l’occupazione della Tripolitania sarà il principio di un rinnovamento spirituale dell’Italia, vantaggioso per la borghesia e ancor più per il proletariato […] Un nuovo Risorgimento della nazione italiana». Come dire: facciamo la guerra (al Turco) per promuovere l’emigrazione… Uno spunto di riflessione interessante, anche per gli amici di Salvini.
In breve: sbarchiamo sulle coste libiche e subito appare chiaro che è stata largamente sottovalutata la capacità di organizzarsi e di resistere da parte dell’Impero ottomano. La marina italiana tenta alcune azioni di disturbo nei Dardanelli senza risultati tangibili, eccettuata la chiusura degli stretti da parte dei turchi, e il conseguente accentuarsi della crisi internazionale. Nasce allora l’idea di occupare militarmente le Sporadi meridionali con l’Operazione Bomba, così chiamata dal nome di una località della costa libica: chiaro l’intento di depistare lo spionaggio internazionale. Nell’aprile del 1912 le forze italiane, al comando del generale Giovanni Ameglio, sbarcano a Stampalia (Astipalea), quindi nel mese di maggio occupano Rodi e via via tutte le altre isole, bene accolte dalla popolazione che detesta l’occupante turco e si immagina che questo sia il primo passo per una annessione definitiva alla Grecia. Per rassicurare la Francia e l’Inghilterra il governo italiano si affanna a dichiarare che si tratta di una occupazione temporanea, che però diverrà definitiva nel 1922, dopo la fine della prima guerra mondiale e la scomparsa dell’Impero Ottomano.
Al Dodecaneso è riconosciuto lo statuto di Possedimento: qualcosa di più che una colonia, e di meno che una provincia. A capo dell’amministrazione vi è il Governatore: dopo due predecessori è la volta di Mario Lago, in carica dal 1922 fino al 1936. La sua azione appare rivolta sostanzialmente a separare i vescovi locali dal Patriarcato di Costantinopoli: la Chiesa di Rodi viene proclamata Autokephalos; tuttavia questo ha come effetto non soltanto l’opposizione del basso clero, ma anche della popolazione civile, con scontri (la cosiddetta “guerra dei sassi”) e la morte di un ragazzo colpito alla testa dalla pallottola di un carabiniere. Nel 1936 il governo fascista decide di ricorrere alla maniera forte e sostituisce il ”morbido” Lago con il quadrumviro De Vecchi, il quale dà inizio a una intensa azione di fascistizzazione e militarizzazione dell’arcipelago. L’italiano diviene lingua obbligatoria e si scoraggia, o addirittura si proibisce, l’uso del greco; ha inizio una grande attività edilizia e di urbanizzazione, di cui Portolago è un esempio, autentico museo a cielo aperto del cosiddetto Razionalismo italiano: il mercato centrale e l’asilo comunale di Rodolfo Petracco, la chiesa di San Francesco e la Casa del Fascio di Bernabiti, oltre all’Albergo Roma e al cinema-teatro già citati. La Marina identifica in Leros il centro strategico più importante, e attrezza il golfo di Lakki perché possa ospitare una flotta di sommergibili; la medesima area diventa anche una base per idrovolanti (esiste ancora oggi la gru per sollevarli e deporli sull’acqua).
Mentre leggo sul Samsung un vecchio documento che ricorda queste vicende sono seduto su una comoda sdraio “gestita” dal ristorante Vareladiko, che pratica il marketing caratteristico dell’isola: ombrellone, sdraio e trasporto in gommone avanti/indietro a una spiaggia più appartata (e meglio attrezzata) sono gratuiti purché si consumi almeno una bibita. Naturalmente pranziamo qui a mezzogiorno, in modo gradevole e tale da soddisfare anche un robusto appetito. Il prezzo oscilla tra 7 e 8 euro pro-capite, e la spiegazione di questo piccolo miracolo economico si ha subito non appena si chiede il conto, che viene presentato sotto forma di un foglietto scarabocchiato e non sempre leggibile. Ecco svelato l’arcano: a Leros è in atto una evasione fiscale massiccia, e questa – aggiunta alle agevolazioni di cui godono le isole dell’Egeo – aumenta a dismisura il solco economico e sociale che separa questo mondo dalla Grecia continentale. Negli anni precedenti, la stampa e la televisione hanno diffuso immagini angoscianti di persone ormai senza più risorse, di malati impossibilitati a curarsi, di pensionati che hanno visto evaporare la loro pensione: gente della metropoli o del continente. Al contrario non c’è traccia di disperazione sulle facce della gente di Leros. Qui la parola crisi è riservata soltanto a quella “umanitaria”, gli immigrati. Ne parla in termini accorati la direttrice del piacevole albergo dove mi trovo, che però si affretta a respingere un giovane vestito decorosamente, quando costui in buon inglese chiede di fare una doccia e un letto per dormire. «Se accettiamo questa gente i nostri ospiti se ne vanno». Non è la sola a pensare così; tutti gli abitanti – più o meno direttamente – dipendono economicamente da un’unica fonte, da un’unica attività ahimè non esportabile: il turismo, e praticano un dumping che metterà sempre più in difficoltà le località turistiche dell’Italia meridionale. Già la stagione risulta prolungata di almeno un mese rispetto a noi: settembre appare un periodo di alta stagione – se non nei prezzi, quanto meno nella frequenza dei visitatori. Qui sta il disastro al quale accennavo in precedenza: un paese che non produce nulla che sia esportabile e non è neppure in grado di generare le risorse necessarie ad assicurare i servizi di base. Non è capace di fare i conti con se stesso e nello stesso tempo continua a contrarre debiti per pagare debiti.
La brezza leggera e la dolcezza del paesaggio sono sufficienti ad allontanare questi pensieri. In lontananza il monte Clidi domina la baia di Alinda. Lassù stava una postazione della contraerea italiana, come pure sul castello, dove invece oggi hanno posizionato i resti di alcuni cannoni forse coevi della battaglia di Lepanto. Di nuovo una vecchia storia si riaffaccia alla mente: l’Operazione Achse, un’altra vicenda di insipienza militare e politica collettiva. Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra; De Vecchi, che ha ai suoi comandi oltre 20.000 uomini, è irresoluto, non accetta ordini provenienti dal comando supremo e in definitiva conclude poco o nulla, nonostante la posizione strategica del Dodecaneso, tra Malta e l’Egitto. Il 29 ottobre Mussolini decide di attaccare la Grecia, e un mese dopo il Governatore viene destituito. Gli succede il generale Bastico fino al luglio 1941, e quindi l’ammiraglio Inigo (sic!) Campioni, forse per compensarlo per l’allontanamento dal comando di forze navali dopo la battaglia di Punta Stilo e il disastro provocato dall’attacco inglese a Taranto. L’esito dell’aggressione alla Grecia è noto, come le conseguenze: Hitler invade i Balcani, e i tedeschi diventano la presenza politico-militare preponderante nell’Egeo. Alla data dell’8 settembre 1943 le forze italiane di fanteria nel Dodecaneso ammontano a 30.000 uomini; 2.000 se ne contano perla Marina e 3.000 per l’Aeronautica. Alle 20.50 dello stesso giorno i tedeschi fanno scattare l’Operazione Achse, già da tempo predisposta in vista della defezione dell’alleato. Gli italiani quasi ovunque resistono; ma 3 giorni dopo arriva l’ordine incredibile: «… alle ore 11.35 accettato le condizioni di resa proposte dal comandante delle truppe germaniche. Ordino perciò che tutte le truppe […] depongano le armi senza condizioni e che cessi qualsiasi resistenza contro le forze armate germaniche. Campioni». Oltre 30.000 uomini che dovrebbero cedere le armi di fronte a 7.000 nemici! Alla resa seguono deportazioni e stragi; a Leros tuttavia la resistenza italiana continua, coordinata dal capitano di vascello Luigi Mascherpa. Si sono aggiunti 2.000 inglesi, su iniziativa di Winston Churchill – forse desideroso di riscattare il ricordo di Gallipoli. «Improvvisate ed osate!» esorta il Primo Ministro; mentre gli americani, che ormai considerano largamente secondario questo scacchiere, guardano con sospetto all’iniziativa inglese. L’attacco decisivo dei tedeschi avviene nella notte tra l’11 e il 12 novembre; gli inglesi e gli italiani non si intendono, e i primi non si fidano dei secondi: così il generale Tilney non ordina il contrattacco quando ancora sarebbe stato possibile, forse una ritorsione frutto dei pessimi rapporti con i comandi italiani. Il 16 novembre alle 17.30 arriva l’ordine: «Cessato allarme alla piazza. Assetto normale di pace. Capitolazione della piazza». La Wermacht inizia a passare per le armi ufficiali, sottufficiali e quanti avevano opposto maggiormente resistenza. Tra i prigionieri deportati in Germania si contano oltre 3.000 inglesi, tra cui il generale Tilney, e più di 5.000 italiani, incluso Mascherpa, nel frattempo elevato al rango di ammiraglio. I morti nel complesso superano largamente il migliaio.
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Sono trascorsi 3 giorni e mi trovo nella stessa piazza di Portolago. Adesso sembra quasi deserta: i “migranti” sono ridotti a gruppi sparuti di giovani che girano per le strade con sacchetti di plastica colmi di acquisti di generi di prima necessità; una piccola folla si accalca in un’agenzia di viaggi, in cerca del primo mezzo per andarsene. Hanno soldi con loro, e la Merkel ha aperto ai siriani le porte della Germania.
Nell’isola deve essere arrivato un controllo da parte della finanza perché alla sera, quando chiediamo il conto al ristorante, viene deposto sul tavolo un piccolo bicchiere rovesciato. All’interno una strisciolina di carta dove sono riportati i prezzi delle nostre consumazioni e l’indicazione: IVA 16%. Magari è un trucco; forse l’evasione fiscale ha preso un’altra strada. Chissà.
E del Dodecaneso cosa resta? Per il ristorante, questa è una serata speciale che comprende addirittura una esibizione musicale (che sia questo il motivo del bicchierino?). Un cantante più o meno della mia età – del genere folk/sentimentale – rispolvera un repertorio “classico” da Melina Mercouri in poi, accompagnato da un mandolino e da una chitarra. Improvvisamente ho un sobbalzo: non posso sbagliare, è proprio quella … Sciagurati, hanno riaperto una ferita. Stanno intonando Osteria numero 1 ecc. in una inaspettata versione greca.