A proposito di "Soli eravamo"
Saggio sul fallimento
Da Proust a Garcia Lorca, dai Radiohead a Kafka, da Joyce a Caravaggio, da Bill Evans a Virginia Woolf: Fabrizio Coscia ricama con le storia e le parole per raccontare il male di vivere
Il libro di cui sto per parlarvi – Soli eravamo di Fabrizio Coscia (ad est dell’equatore) – non mi è soltanto, banalmente, piaciuto, è un libro che mi ha coinvolto intimamente, direi per una forma di identificazione con colui che racconta, proprio come succede con i personaggi di certi romanzi. Un’identificazione di esperienze, fedi politiche, mitologie e, aggiungerei, perfino di un certo atteggiamento verso la vita: rinunciatario, attratto perversamente dal fallimento.
Ed è proprio il “fallimento” uno dei motivi conduttori di questo libro, che assembla nelle sue pagine parecchie figure di artisti grandi e meno grandi (scrittori perlopiù, ma anche musicisti, pittori, poeti…), incastonandoli in una specie di romanzo di formazione, un Bildungsroman che racconta di una crescita, di una maturazione (morale, intellettuale, anagrafica, sentimentale), dell’autore stesso. I personaggi sono reali (quelli ritagliati sulla sua personale biografia) e quelli introiettati dai libri amati, dalle opere d’arte, dalle figure di artisti e scrittori nei quali si è imbattuto nelle diverse epoche della vita: da Proust a Garcia Lorca, dai Radiohead a Kafka, da Joyce a Caravaggio, dal pianista eroinomane jazz Bill Evans agli Inti Illimani, dalla suicida Virginia Woolf a Babel’, giustiziato da Stalin dopo torture e estorte confessioni, da Leopardi a Rimbaud ecc.. in una condivisione che diventa sempre più stringente e palpabile via via che il libro avanza e i nessi si precisano.
Dunque, il senso del fallimento, lo smacco esistenziale, la sconfitta. Coscia è attratto, da narratore, dagli artisti che soccombono e rinunciano, sia che muoiano suicidi (come la Woolf, come Pavese), sia che vengano giustiziati-assassinati (Pasolini, Garcia Lorca), sia che perdono l’Amore, dopo averlo a lungo bramato e sognato e idealizzato: Brahms con Clara Schumann, Marcel Proust con il suo maggiordomo Agostinelli (che magicamente diventa l’Albertine della Recherche). Ma pensiamo anche al destino di Walser, in uno degli ultimi capitoli, bellissimo, intitolato come un’amata canzone dei Radiohead Come sparire completamente. Robert Walser, «il camminatore», lo scrittore che voleva cancellare se stesso, scomparire, annullandosi in un impiego servile, come il Bartleby melvilliano, che smette di scrivere e passa gli ultimi 23 anni di vita in manicomio a Herisau nella Svizzera tedesca. E finisce per morire congelato sul ghiaccio durante una delle sue tipiche lunghe passeggiate nei dintorni della clinica, come testimoniano le fotografie che corredano il racconto.
Oppure Rimbaud che sceglie di non scrivere mai più versi all’età di 23 anni fuggendo in Africa a fare tutt’altro e usando la scrittura, da quel momento in poi, soltanto per redarre mappe e rapporti commerciali. Oppure pensiamo al Pasolini che, come Lorca, viene assassinato in quanto “frocio”, in quanto “comunista”: due poeti, due grandi poeti del Novecento, accomunati perfino negli epiteti che gli vennero urlati verosimilmente addosso dagli assassini (gli sgherri franchisti che fucilarono Garcia Lorca, i marchettari parafascisti che massacrarono insieme a Pelosi il poeta di Casarsa).
Coscia ha un talento davvero speciale nel saper individuare delle corrispondenze, anche sotto il segno di «congiunzioni epocali» che non si possono ignorare: come l’incontro davvero storico fra Proust e Joyce, i due maggiori romanzieri del novecento, in una serata di gala per una prima di Stravinsky, in una sala riservata dell’hotel Majestic. L’incontro era stato organizzato (e promosso e fortemente voluto) da una coppia di mecenati parigini illuminati, che ne avevano ben chiara la portata. Incontro che peraltro fu alquanto deludente, risolvendosi in qualche battuta sugli acciacchi reciprochi (l’uno malato agli occhi, l’altro gravemente ai polmoni) e nella condivisa confessione di non essersi ancora letti.
E che dire del “probabile” incontro fra Mozart, Da Ponte e Casanova alla prima del Don Giovanni a Praga il 29 ottobre del 1787, per «colmare con l’immaginazione le lacune della Storia, l’assenza dei documenti. Non si può rinunciare – scrive Coscia – a una simmetria più seducente di questa, a una concomitanza di eventi più proficua, a una congiunzione più perfetta». Quasi sempre il racconto prende le mosse da vicende personali, da occasioni autobiografiche. Come quando Coscia ci racconta la storia, tipicamente italiana, di un artista fasullo – una specie di regista di teatro – scrittore mitomane, che si spacciava, e ancora si spaccia (con tanto di voce su wikipedia), per chi non era. Personaggio descritto con maestria (e perfidia) da romanziere, il quale aveva esercitato su di lui per un certo periodo una grande influenza.
Mi accorgo di non aver ancora detto nulla sullo stile, sulla lingua, con cui questo libro è scritto. La lingua di Coscia è semplice, ma non “facile”, perché non elude mai la complessità. Una lingua da narratore (nella scaltrezza del racconto) e da saggista (nella precisione e nell’affidabilità critica). Una lingua mai “enfatica”, mai “retorica”, che non si mette in mostra, lavorata con maestria per sottrazione.
Approfitto per segnalare un altro libro molto interessante che mi è passato per le mani della stessa collana editoriale Extras, ad est dell’equatore: Solo Parigi e non altrove – una guida sentimentale di Luigi La Rosa. Anch’esso illustrato da immagini-foto in bianco e nero, anch’esso seducente graficamente. Una guida colta di Parigi oggi dall’osservatorio di un innamorato flâneur omosessuale.