Il nostro inviato al Lido
Made in Bellocchio
È intimo e stilisticamente libero “Sangue del mio sangue” ambientato dal regista nella sua terra natale. Efficace il film “postumo” di Claudio Caligari con un ottimo Valerio Mastandrea. E la ricostruzione della morte di Rabin firmata da Amos Gitai apre interrogativi inquietanti sul nostro presente
Lo splendido settantacinquenne Marco Bellocchio regala alla Mostra di Venezia il suo film più intimo, più domestico. Sangue del mio sangue, in concorso, è infatti girato interamente nella sua Bobbio, dove il regista non solo è nato ma ha anche fondato una Scuola di cinema. Prendendo spunto dalle carceri abbandonate del comune piacentino Bellocchio racconta una storia che si dipana in due diversi momenti storici. Interpretato da Piergiorgio Bellocchio Sangue del mio sangue parte dalla terribile vicenda di una monaca che, per salvare l’onore e l’anima del suo nobile amante, deve dichiararsi strega. Costi quel che costi. A lei, ovviamente. La prima parte del film termina quando la poveretta viene murata viva. A questo punto siamo ai giorni nostri. I personaggi vengono traslati nella realtà completamente trasformata, o meglio, aggiornata. La forza del film è proprio in questa similitudine, nei continui rimandi che il presente offre ricordandoci il passato. Le oppressioni, le vessazioni, il potere insomma, come in ogni film di Bellocchio viene messo all’indice. C’è però in questo film una totale libertà di stile, che in certi momenti spiazza, sorprende. La difficoltà più grande, forse il limite, è proprio nel continuo ammiccamento della macchina da presa con i luoghi così cari al regista. Alcuni passaggi poi risultano criptici, ma ugualmente potenti e suggestivi.
Primordiale ed efficace il film di Claudio Caligari, il regista prematuramente scomparso nel maggio scorso. Non essere cattivo, presentato fuori concorso, narra una storia che si svolge nel 1995. Ed è girato come un film di quell’anno. Il cinema di Caligari è sempre diretto, viscerale. Pur nella sua prevedibilità riesce a raccontare come nessun altro la vita dei disperati delle periferie. Già così cari a Pier Paolo Pasolini. Ma sarebbe sbagliato accostare i due registi in maniera pedissequa. Tanto il cinema di Pasolini è un cinema alto, che parte dall’alto, che riprende dall’alto, tanto il cinema di Caligari è un cinema che parte dal basso, che nel basso rimane. Perché è nella inconsapevole complicità sociale che trova la sua forza e la sua ragion d’essere. Un bravo a tutti i protagonisti e uno in particolare a Valerio Mastandrea, che ha permesso che il film non solo fosse portato a termine, ma ha anche fatto in modo che la “macchina” Caligari riavviasse il motore per questo ultimo struggente viaggio.
Notevole davvero Rabin the Last Day, di Amos Gitai. Il regista che non fa certo della simpatia il suo asso nella manica, confeziona un robusto documento che racconta le cause che portarono all’esasperazione dei toni nel conflitto interno a Israele, sfociato nell’assassinio del primo ministro, proprio dopo la firma del patto di Oslo e le aperture filo palestinesi di Rabin. Oltre due ore di storia, con un finale davvero inquietante che ci riporta ai giorni nostri. Fischiatissimo ai limiti dell’insulto The Endless River di Oliver Hermanus. Il che dimostra ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, che le sale del Lido sono frequentate da cialtroni ignobili, maleducati e, loro sì, davvero incompetenti. Curioso, infine, l’esperimento di Charlie Kaufman (con Duke Johnson), acclamato sceneggiatore, in concorso con Anomalisa. Film d’animazione in stop-motion, con scene di sesso e un geniale uso delle voci. Oltre a quelle dei due protagonisti, interpretati da Davis Thewlis e Jennifer Jason Leigh, quelle degli altri personaggi, uomini donne bambini, sono tutte di Tom Noonan, il killer di Manhunter, frammenti di un omicidio. Così, tanto per farvi venire un po’ di curiosità.