Il complesso vicino a Isernia
Il parlamento Sannita
Inaugurato il restauro della Domus di Pietrabbondante, un luogo magnifico che mescola simboli religiosi e identità statuale del Sannio. Motivo in più per visitare un parco archeologico magnifico
L’ora migliore per visitare l’area archeologica di Pietrabbondante è l’alba, perché verso il sole che spunta è allineato il tempio più antico che domina il pianoro del monte Caraceno, in modo di catturarne i primi raggi nei solstizi d’estate e d’inverno, misurare ogni mutar di stagione e rubarne forza profetica. Ma quella che restituisce più suggestioni è dopo il tramonto, quando lo sguardo da quei mille metri d’altitudine si perde nel vuoto di un incastro di vallate, contro le creste azzurrine delle montagne attorno, una fila dietro l’alta di linee e volumi che stanno evaporando nel buio. E ti sembra davvero, come avveniva oltre duemila anni fa, di essere il testimone di un paradiso inviolabile, di una terra che non ammette sconfitta.
Per questo lì su quello spiazzo, a meno di venti chilometri dall’attuale Isernia, i Sanniti e i loro alleati si riunivano a prestar giuramento, scegliere dieci capi e affidar loro il compito di comporre le file dell’esercito di tribù federate, secondo un complesso rituale che molti anni dopo lo storico Tito Livio ricostruì, raccontando il travaglio di quei settant’anni di battaglie che dal 366 al 290 a.C. racchiudono il ciclo e l’epopea delle tre guerre sannitiche. Quasi certamente da lì partirono i combattenti che inflissero alla Roma dei consoli una delle più umilianti sconfitte: la resa delle Forche caudine. Lì sfilarono probabilmente i sedicimila soldati che, secondo Livio, tentarono invano di evitare l’ultima decisiva sconfitta che consegnò a Roma il dominio dell’Italia centromeridionale e al popolo Sannita, inglobato nel regno dei vincitori, la condanna alla perdita progressiva della propria identità.
Visitare il sito di Pietrabbondante, che sorge a meno di un chilometro dal paesino molisano, settecento abitanti rimasti a presidiare un grumo di case dominato da uno sperone di roccia sempre in procinto di venir giù e travolgere tutti, offre l’occasione preziosa di rileggere queste pagine di storia dalla parte dei vinti. Recuperata dagli scavi, incrementati da una campagna diretta negli ultimi venti anni da un archeologo doc come Adriano La Regina, ex soprintendente di Roma, l’area archeologica di monte Caraceno, ancora quasi sconosciuta, è tra le più ricche e fascinose del centro Italia. Per la sua collocazione in un paesaggio dimenticato da secoli e dunque rimasto quasi intatto di vallate, cime montuose, campi e boschi. E per la quantità e qualità dei tesori che racchiude. Come gli imponenti podii di due templi.
Uno più in basso collegato al culto della dea dell’abbondanza. L’altro più grande e più antico, circondato da un massiccio recinto di pietre, è appunto quello che accoglieva le riunioni e le cerimonie più importanti dei popoli del Sannio. Costruito nel quinto secolo, fu quasi completamente distrutto al passaggio dell’esercito cartaginese d’Annibale e rifatto pochi anni dopo. O come lo splendido teatro, la cui sistemazione di fronte al tempio maggiore risale alla fine delle guerre sannitiche e la cui architettura conferma l’influenza della vicine colonie della Magna Grecia. Di fronte all scena, di cui sono stati rimessi su gli elementi del fronte e l’arco voltato dell’ingresso, una elegante cavea di sedili di pietra bianca, incassata tra scarpate erbose che all’epoca ospitavano altri seggi mobili, per una capienza complessiva di 2500 spettotori. Molti sedili hanno conservato la spalliera, altri i braccioli decorati con rilievi di animali. Il teatro era parte integrante del santuario e destinato esclusivamente a spettacoli di canto e di danza.
La nuova attrazione del sito è il complesso in pietra che sorge più in basso a poca distanza dal tempio. È una casa con un cortile ad impluvium, e un portico colonnato. A renderla unica agli occhi degli archeologi è la comprovata funzione di ”domus publica”, destinata cioè al sacerdote che officiava e dirigeva il santuario. Una residenza riservata a un culto di Stato. Non ne è mai stata ritrovata una così integra. Quasi certamente il culto era quello della dea Ops cultiva, nume dell’opulenza, venerata anche a Roma sin dai tempi di Romolo. Una scritta che evoca il nome della dea è stata trovata tra i resti del portico: nove colonne sono state rimontate con i rocchi trovati sul posto e altri scoperti in altre abitazioni di Pietrabbondante, in gran parte costruite con pietre e materiali provenienti dal santuario. Operazione di anastilosi che dovrebbe servire da stimolo ed esempio per gli archeologi del Foro romano, che da decenni non riescono a rimettere in piedi le colonne del portico del Foro della Pace, crollate per un terremoto e ritrovate sul posto davanti ai capitelli ancora intatti sul podio.
Il restauro della domus di Pietrabbondante è stato inaugurato sabato scorso: una cerimonia che puntava anche a sottolineare la mancanza di fondi che impedisce di proseguire i lavori. In ottobre l’apertura ufficiale al pubblico.