A proposito di “Breve storia del talento”
La forza del destino
Una giovane promessa del calcio abbandona la sfida del caso credendo di prendere in mano la propria vita. È la sostanza del nuovo “romanzo di formazione” di Enrico Macioci
«Può il talento abbandonarci, smettere di essere? Può il talento sottostare alle nostre decisioni?», «In che rapporto stanno talento e volontà?»: da queste domande prende avvio il nuovo romanzo di Enrico Macioci Breve storia del talento (Mondadori, 153 pagine, 17 Euro) che segue all’apprezzato esordio di qualche anno fa con La dissoluzione familiare (Indiana, 2012). L’epifanico incontro con il talento e la necessità, nella vita, di misurarsi con esso, di sopravvivergli anche, diventa per lo scrittore aquilano la chiave di volta per interpretare, sempre dipanando una materia autobiografica, il transito obbligatorio e definitivo per le crudelissime stagioni dell’infanzia e dell’adolescenza.
È il tempo delle “notti magiche” di Italia ‘90, il narratore, nato e cresciuto a Prato Verde (uno dei tanti quartieri della provincia italiana), promessa del calcio giovanile, vede infrangere i suoi sogni di gloria calcistica quando assiste, annichilito, alle smaglianti prodezze del suo amico, «il grande Michele» («non c’è abbastanza spazio nel medesimo tempo e nel medesimo luogo per due abbastanza bravi nella medesima cosa; uno dei due deve cedere»). Scavando nel tempo dilatato di quell’ultima estate, il protagonista rivive amori, turbamenti, angosce; fino a rivivere il percorso attraverso il quale ha trovato la forza necessaria a dare seguito alla sua vera vocazione: diventare scrittore. Un romanzo di formazione, dunque: epperò con il baricentro spostato verso l’insistito riandare alla progressiva perdita d’infinito, connaturata all’iniziatico «rodaggio esistenziale» d’ognuno – quando capiamo di abitare un «mondo chiuso», e siamo impegnati nella drastica operazione di tutto ridimensionare. Con l’immancabile ritorno, anni dopo, a verificare il destino dei protagonisti di quel piccolo mondo fatto di sogni, gioie impalpabili, ansie e fragili aspettative.
Vibra, in Breve storia del talento, una precisa idea di fondo: che la realtà coincida con «ciò in cui decidiamo di credere» (lo stare al mondo quasi come esercizio di costruttivismo mentale). La forza obiettiva del romanzo risiede nella materia fondante – dire della ferita, dell’irrimediabile espulsione dalla giovinezza, il trauma d’essere destinati non all’eterno ma a una dimensione tutta compromessi, costrizioni, finitudine –, nella costante messa a fuoco del nesso tempo–verità. Un libro, dunque, centrato sull’identità, sul nostro posto nella vita; sul senso fulmineo di certe rivelazioni, nel tentativo e nello sforzo di indagare i paradossi delle «geometrie» cieche dell’esistere.
A non convincere del tutto è invece quell’accento quaresimale e sentenzioso che domina per ampi tratti, fino a fungere da vero e proprio leitmotiv: una tramatura stilistica (invischiata entro una pervasiva emotività) che, nel tentativo di dare forma al caos degli intimi accadimenti, insiste troppo su quelle cose «tradotte in parole» che sovente finiscono per suonare retoriche quando non banali. Ecco che, per esempio, la vita diventa «un pugnale che trafigge i nostri cuori, per quanti duri siano»; l’adolescenza è «l’età più celeste e più misteriosa», mentre l’età adulta «non guarda in faccia la realtà, preferisce soprassedere e tacere»; il calcio, infine, come la vita, «è una battaglia»: «la possibilità di morire tante volte in vita».
Il prodotto è insomma una scrittura non sempre meditata, una restituzione in presa diretta che tradisce tutta l’ansia da racconto dell’autore, tra intento quasi naïf e disinvolta ricerca dell’effetto poetico. Questo per dire che, stilisticamente, Breve storia del talento riesce un libro sì ambizioso ma con non poche cadute. Nel dare ascolto alla sacrosanta ossessione di cesellare ogni frase, di sostanziare il mistero del tempo che passa – la discrasia tra la vita com’è davvero e come noi l’abbiamo creduta, immaginata, costruita –, all’autore avrebbe giovato senz’altro depurare il suo dettato, naturalmente poetico si diceva, attraverso la ricerca dell’implicito; corteggiando di più il non-detto e, soprattutto, giocando non poco (come bene consigliava Italo Calvino) a sottrarre.
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