Letteratura e Olocausto
La verità di Daša
È morta ieri, improvvisamente, la scrittrice croata Daša Drndić. Ripubblichiamo l'intervista che ci ha dato in occasione del suo romanzo "Trieste", un libro che mescola realtà e finzione nel segno del dolore
Daša Drndić, la grande scrittrice croata che tanta attenzione ha riservato all’Olocausto e ai conflitti razziali che hanno sconvolto in Novecento (anche nel suo tormentato Paese) è morta ieri a 72 anni. Tre anni fa, il nostro Andrea Carraro la incontrò in occasione dell’uscita del libro Trieste. Ripubblichiamo qui quell’intervista.
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Trieste della scrittrice croata Daša Drndić (Bompiani, pp.444, 19 euro) non è soltanto un libro sulla Shoah (comparabile per importanza ai capolavori di Primo Levi o a Necropoli dello sloveno Boris Pahor) ma è anche un grande romanzo di letteratura contemporanea capace di connettere diversi registri linguistici in una narrazione polifonica, magmatica, di ampio respiro, trascinante, sull’occupazione nazista dell’Italia settentrionale, che è già stata accostata alle opere di De Lillo, Mailer, Sebald ecc. Un patchwork nel quale convivono memoriali di vittime, di carnefici e di molti bystander (osservatori ciechi), versi di grandi poeti, deposizioni di criminali nazisti, foto, mappe genealogiche, spartiti, fulminanti ritratti di personaggi storici (il matematico napoletano Renato Caccioppoli, per esempio). Attraverso la vicenda dell’ebrea goriziana Haya Tedeschi e della sua famiglia fra Gorizia, Trieste, Napoli, Valona in Albania, Milano, Daša Drndić ha raccontato l’orrore di un popolo perennemente in fuga che viene respinto, brutalizzato, infine decimato dalla furia devastatrice della Storia.
Ciò che più di ogni altra cosa impressiona in questo libro è la enorme messe di informazioni che vengono trattate nel testo. Ci vuole dire come ha lavorato, in grandi linee, per reperire ed elaborare tutte queste informazioni, anche se in parte lo racconta nel romanzo?
Lo fa sembrare più complicato di quanto non sia. Ho fatto qualche ricerca, ma non tanto come sembra. A volte un fatto innesca la ricerca di un altro fatto, ciò rende possibile la costruzione di scene immaginarie ed eventi inventati. La scrittura non si esaurisce nell’esecuzione a tavolino di un “progetto”. Per incuriosire davvero chi legge, o anche per disturbarlo, è necessaria una“musica interiore” dello scrittore. Nella scrittura, per quanto attiene allo stile, al ritmo, al modo insomma in cui il “contenuto” viene plasmato, gioca un ruolo determinante anche l’inconscio. Naturalmente, ciò che viene chiamato “intuizione” si fonda anche sulla pratica, su una certa conoscenza del “mestiere”, perché la scrittura è anche un mestiere, e non è certo il risultato esclusivo dell’ispirazione. Gli scrittori possiedono come delle piccole lampade interiori, una verde che dice, va bene, vai avanti, e una rossa che invece mette in guardia, obbliga a fermarsi, a riconsiderare quanto si va scrivendo. Per me almeno funziona così. La letteratura permette di raccontare un conglomerato di esperienze, quella propria ma anche quella di un popolo. Essa richiede la capacità di vedere e di sentire, di empatia. Ora, quello che ho appena detto potrebbe suonare come una lezione ex cathedra. Ma non credo che lo sia.
La Shoah è molto raccontata oggi, dal cinema, dai libri, dalla tv, dai media in genere, al di là del “giorno della memoria” che le è stato dedicato. Si sta facendo abbastanza secondo il suo punto di vista per serbarne una fondamentale memoria storica? C’è qualcosa in questa spontanea campagna di diffusione che la infastidisce? Quali opere pensa che abbiano “fallito”, trasmettendo un’immagine moralmente sbagliata, inautentica dell’Olocausto?
L’idea alla base di Trieste era di non mettere in primo piano l’Olocausto. L’Olocausto è stato in un certo senso un fondale, un avvenimento esterno. Per me la questione fondamentale era ed è racchiusa nell’eterna domanda senza risposta: come e perché il male si impossessa della razza umana. Chi siamo e come ci percepiamo. In questa epoca di irrazionale e quasi isterico consumismo, di dilagante superficialità, spesso è più facile vedere ciò che è dipinto sulla tenda di quello che c’è dietro, e ciò che è dietro spesso ha a che fare con il nostro io profondo. Naturalmente non mancano film e libri brutti sulla Shoah (per esempio il recente Hannah Arendt di von Trotta), ma ci sono per fortuna anche opere molto buone, creazioni artisticamente potenti (mi viene in mente fra le altre Il Portiere di notte della Cavani). Credo che sia davvero importante oggi parlare del pericolo che le ideologie filo-fasciste e filo-naziste possano gradualmente tornare a prendere il sopravvento. Da qui, la necessità di fare i conti con il passato. Per essere al passo con l’oggi occorre ragionare sul modo in cui la vittima in determinate condizioni può trasformarsi in carnefice (o in boia come direbbe Dürrenmatt).
Nel libro si parla molto, con crudezza e nero sarcasmo, dei programmi per la “bambola depurata a grandezza naturale”, di produzione in serie di donne ariane, di eugenetica nazista. “Castrazione, sterilizzazione, procreazione controllata, fornicazione e prostituzione sono le più potenti armi del Reich, le più grandi ossessioni del Reich, come lo sono, in fin dei conti, della Chiesa”. Il sesso mercenario e serializzato, assieme ai programmi di eutanasia, viene descritto quasi come un motore della follia nazista e anche della Storia tout court…
Questi sono fatti. Mostrare come quei fatti rispecchiano la mente disturbata delle persone, potrebbe essere la guarigione, no? I fatti, proprio in quanto tali, sfidano ogni relativizzazione. Le idee possono essere relativizzate, ma i fatti no. Non esiste un piccolo e un grande fascismo, una piccola e grande intolleranza, una piccola o grande omofobia. Lo stesso vale per il nazionalismo. Poiché, ciò che sembra piccolo ha un potenziale di crescita, e quindi può diventare mortale. Non ci sono scuse per la nostra mancanza di volontà di vedere e di agire ovunque e ogni volta che possiamo. E, se guardiamo con attenzione, le discussioni sul presente (in un modo o nell’altro) rimandano al nostro passato, e viceversa.
C’è una grande severità di giudizio sui genitori incapaci di guardare in faccia la realtà, vili, conformisti, in qualche misura complici, “osservatori cieci”, Bystander, come li definisce a più riprese. Questa “severità” di giudizio, che si esprime spesso in un humour nero, sembra estendersi anche alla stessa protagonista Haya, che si commuove nei film di propaganda fascista e nazista, che s’innamora di un nazista sanguinario, che comincia a “capire” solo quando riceve la lettera di un suo ex-allievo che la accusa di “non aver saputo che al lager di San Sabba si uccideva a pieno regime mentre lei, Haya Tedeschi, frequentava cinematografi e si dilettava in incontri amorosi”…. Forse è proprio questa severità anche verso la protagonista, e il senso di colpa lacerante che sottende, che non permettono l’autoassoluzione in nessuna forma.
È proprio così. Haya, la mia “eroina”, per raggiungere una sorta di catarsi, ha dovuto passare attraverso un proprio inferno personale. Per questo l’ho “punita”, per dir così, con il suo bambino rapito; circostanza che serve a innescare la sua ricerca che non riguarderà più solo il bambino. Quanto all’umorismo, forse poteva essercene anche di più, per il bene del lettore, per dargli respiro, per concedergli qualche pausa.
Parliamo un momento di Kurt Franz, il criminale nazista di cui Haya si innamora (dal quale avrà un figlio che le verrà rapito), che a Treblinka, fra un’atrocità e l’altra, si diletta di musica, pugilato, fotografia, coltivazione di fiori. In che modo ha costruito quel terribile memoriale-interrogatorio post-mortem?
Era tutto accessibile a chiunque volesse scavare. Ci sono documenti, trascrizioni di prove, ci sono storie personali reperibili. È solo una questione di smistamento del passato (e del presente) in una cartella organizzata, e cioè tra le pagine di un libro, dove diventa più “facile” la consultazione.
Agghiacciante anche il memoriale della zurighese Elvira Weiner da cui emerge come si esprimeva la presunta “neutralità” della Svizzera: gli abitanti prossimi alla stazione che si lamentano per le urla isteriche degli ebrei ammassati come bestie nei vagoni, i palliativi del brodo caldo distribuito in segreto, con il ruolo a dir poco ambiguo della Croce Rossa svizzera… “Desideravo che quella gente fosse liberata, ma non desideravo che uscisse fuori, da noi, un po’ come quando guardi le belve allo zoo, ti dispiace vederle rinchiuse, ma non desideri certo che escano proprio lì dove sei tu…” , che suona come un atto d’accusa verso tutti quelli che sono rimasti passivi o che, forse persino peggio, si sono illusi di aver in qualche modo alleviato le pene dei deportati.
Il racconto di Elvira Weiner si basa su una storia vera. Il fatto orribile è che la prova di questo “episodio” è volutamente stata distrutta. Da chi? Da chi si spacciava come “neutrale” e “innocente”. Sia dalla Croce Rossa che dalle Ferrovie svizzere.
E veniamo alla madre di Haya, Ada, splendida figura femminile, che alla fine diventa alcolista e viene internata in un ospedale psichiatrico a Trieste, dove conosce il grande poeta Saba. Con quella terminale storia d’amicizia (d’amore) con Saba mi è parso che lei abbia voluto in qualche misura se non proprio assolverla, riscattarla, almeno alleggerirne la colpa… È così?
No, non ho voluto affatto diminuirela suacolpa. Ci si può dispiacere per lei,ma questo non la rende meno responsabile. La sua espiazione avviene attraverso l’alcolismo.
E il personaggio del fratello di Haya che diventa, tanti anni dopo, brigatista e finisce per morire in una prigione romana?
Questo personaggio è completamente inventato. Quello che mi premeva è mostrare come nessuna famiglia, nessun gruppo di persone, sia mai davvero coeso. Durante la Seconda Guerra ci sono stati un sacco di casi in cui un fratello si univa alla Resistenza partigiana mentre un altro stava con i fascisti, nazisti, oppure nascosto sotto il mantello della Chiesa cattolica. E, questo va avanti fino ai giorni nostri – anche se magari il contesto è leggermente diverso.
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Parte di questa lunga intervista è uscita sulle pagine culturali del quotidiano Il Messaggero.