Fa male lo sport
Fangio e il Drake
Vent'anni fa moriva Juan Manuel Fangio, il più grande pilota della Formula 1. Uomo silenzioso e enigmatico che in pista convinse tutti. Tranne Enzo Ferrari
Di lui diceva che era un grandissimo sulla macchina ma era afflitto da mania di persecuzione. Fangio non è stato tra i piloti più amati da Enzo Ferrari: non apprezzò per niente le recriminazioni che il cinque volte campione del mondo affidò ad un libro- memoriale dopo l’addio alle corse. Ma già al primo impatto i due non si presero in simpatia. Ferrari raccontò così l’incontro in Piloti, che gente…: «Lo vidi per la prima volta nella primavera del 1949, all’autodromo di Modena. C’erano altri piloti, altre macchine. Lo osservai per un paio di giri, finii per tenergli gli occhi addosso. Aveva uno stile insolito: era forse l’unico a uscire dalle curve senza sbarbare le balle di paglia all’esterno. Questo argentino, mi dissi, è bravo sul serio: esce sparato e resta nel bel mezzo della pista. Più tardi venne da me in scuderia…». C’erano rappresentanti dell’Automobile club argentino, forse uomini di Peron. Il generale spinse il pilota, non più giovanissimo, a varcare l’oceano, grazie a dei fondi straordinari: sarebbe stato un buon testimonial del paese e del regime.
«…La conversazione fu abbastanza lunga», scrisse ancora Ferrari. «Non proprio con lui per la verità, giacché non disse più di dieci parole. Ad un certo punto cominciai a guardarlo incuriosito: era un timido, un mediocre, un furbo? Non capii. Sfuggiva al mio sguardo, rispondeva a monosillabi con una strana vocetta d’alluminio e lasciava subito che gli altri interloquissero per lui, mentre un costante, indefinibile sorrisetto strabico gli rendeva il volto impenetrabile… Manuel Fangio, così è rimasto per me: un personaggio indecifrabile. La sua statura agonistica era invece indiscutibile…».
Sono vent’anni che Juan Manuel Fangio è morto. Accadde il 17 luglio del 1995, aveva 84 anni. Era nato a Balcarce, a sud-est di Buenos Aires, il 24 giugno del 1911. I suoi genitori venivano dall’Abruzzo, il padre muratore e affezionato a casa Savoia (Manuel pare sia stato un omaggio a Vittorio Emanuele), la madre pantalonaia. Tra qualche settimana dovevano essere riesumati i suoi resti perché il tribunale di Mar della Plata aveva accolto la richiesta di Oscar “Cacho” Espinosa, un uomo – ormai anziano – che ha sempre rivendicato di essere suo figlio: Oscar Fangio, nato nel 1938. Espinosa ha chiesto la prova del Dna. Ma la decisione è stata sospesa. Pare che un’altra persona, prima di Oscar Espinosa, abbia chiesto il riconoscimento di paternità.
Il grande amore del pilota fu Andreina “Beba” Berruet: Oscar sarebbe nato da quella lunga relazione. In vecchiaia lui diceva ancora ai giornalisti argentini: «Quando uno corre in pista, non può andare in giro a fare l’amore. Meno complicata era la cosa agli inizi quando correvo le gare del “Turismo de Carretera”». A Fangio furono attribuiti tanti flirt, uno anche con Gina Lollobrigida, e non pochi figli, secondo la consuetudine del Circo della F.1. Beba girava con lui sui circuiti, la chiamavano Mrs. Fangio. Ma alla fine per lui quella donna fu un errore («fue una estupidez»), dopo un rapporto durato più di vent’anni. Pare che anche Andreina non fosse simpatica al Drake modenese, uomo molto umorale.
Fangio vinse il mondiale con la Ferrari nel 1956, era il suo quarto titolo. In seguito l’argentino, un carattere difficile e un temperamento ombroso, disse che la scuderia di Maranello aveva fatto di tutto per non farlo vincere: sabotaggi, tradimenti, congiure. Tra le altre cose, ne accadde una, invece, che tutti gli amanti dei motori conoscono bene. Era il 2 di settembre e si correva a Monza. Fangio fu costretto al ritiro per la rottura dello sterzo; era in testa alla classifica mondiale con 30 punti, seguito da Peter Collins, il pilota inglese, anche lui della Ferrari, che aveva 22 punti. Quindi poteva giocarsi le sue carte. Ma Collins al 32° giro si fermò, scese dalla macchina e vi fece salire Fangio (il regolamento allora lo permetteva). Luigi Musso si era rifiutato di farlo, almeno in quella occasione, ignorando il diktat di Enzo Ferrari. Fangio finì secondo dietro Stirling Moss e poté così festeggiare il nuovo alloro mondiale. Di Collins si ricorda questa frase dopo la gara: «Fangio è il re del volante ed è un grande campione che non calcherà ancora per molto le scene. Io invece sono giovane e di tempo ne ho». Poveretto, morì due anni dopo, nel 1958, su una Rossa durante il Gp di Germania al Nurburgring.
Ferrari rispose infuriato e ironico nel suo libro alle lamentele dell’argentino: «Ma quale sarebbe la ragione per cui Enzo Ferrari, questo Richelieu delle automobili, mira con tanta perfida astuzia a rovinare il suo miglior uomo di squadra, il campione del mondo? Fangio non ha dubbi e spiega così: Ferrari voleva innanzitutto dimostrare che le sue macchine vincevano anche se al volante non sedeva il campione del mondo, in secondo luogo egli desiderava che il titolo mondiale lo conquistasse Peter Collins, perché Collins significava il mercato inglese, invece quello argentino era allora chiuso alle importazioni…». Il Drake citò tre episodi della stagione ’56 (anno tragico per il grande vecchio: a fine giugno morì il figlio Dino) per smantellare la tesi del pilota: il Gp d’Argentina in cui Musso cedette la vettura a Fangio, il Gp di Monaco in cui Collins prestò la sua macchina al campione e, infine, Monza. «Musso e Collins si sono sacrificati per lui, Manuel Fangio. E ovviamente con il mio consenso… Ci vuole dunque tutto il suo coraggio per definirsi “reietto della Ferrari”, come Manuel Fangio dice di sé, dimenticando persino il sacrificio dei suoi compagni di squadra. Che cosa debbo concludere? Fangio è stato un grandissimo pilota afflitto da una curiosa mania di persecuzione…».
Molte stagioni dopo i due si riconciliarono. D’altro canto, Ferrari ebbe sempre un rapporto ondivago con i suoi piloti, ad eccezione dei tre a cui volle bene sul serio e cioè Nuvolari, Ascari e Gilles Villeneuve (ma secondo Nestore Morosini, che di queste cose ne ha scritto per una vita al Corriere della Sera, difficilmente avrebbe rinnovato il contratto al canadese; poi accadde l’incidente mortale di Zolder nel maggio dell’82). Anche con Niki Lauda grandi slanci e l’austriaco che gli giurò eterna fedeltà per poi andarsene alla Brabham-Alfa Romeo: lui lo cancellò. «Se restava con noi avrebbe potuto eguagliare i 5 mondiali di Fangio». La misura degli affetti la dettava una regola: il pilota non doveva mai oscurare la macchina.
Anche Fangio non è stato un fedelissimo. Cinque titoli con quattro scuderie diverse: 1951 con l’Alfa Romeo, alla guida della mitica Alfetta 159, quel gioiello di meccanica che gli fece esclamare dopo i primi giri di prova: «Madre di Dio!»; 1954 e 1955 con la Mercedes; 1956 con la Ferrari; 1957 con la Maserati. Prima di Schumacher, nessuno aveva vinto come lui. Ancora oggi molti esperti ritengono che sia stato l’argentino il più grande di sempre, in considerazione anche delle sue conoscenze tecniche e della pericolosità delle gare negli anni Cinquanta. «Ma ogni paragone è impossibile», ribatteva Schumi.
Prima di conoscere i trionfi di F.1, Fangio faceva il meccanico, preparava le sue macchine che partecipavano a vere e proprie maratone stradali, le “Carreteras” ai tempi di Andreina Berruet, da Buenos Aires a Lima e ritorno, passando due volte per le Ande: in una di queste gare massacranti, morì il suo amico e copilota Daniel Urrutia, la macchina uscì di strada forse per un errore del futuro campione. Lui non si lasciò andare. Una lunga gavetta, dunque, l’odore dell’officina, il rombo dei motori. Si dice che tutti i meccanici dei grandi team europei lo abbiano adorato come non è più avvenuto con nessun pilota. La leggenda narra che dividesse con loro i premi. Fu un campione anche perché allora i piloti morivano uno dopo l’altro. Negli anni dei suoi trionfi, si contarono 30 morti. Lui in fondo fu solo sfiorato dalle tragedie: si è detto che capiva prima di ogni altro le situazioni pericolose. Nel 1952 a Monza uscì alla curva di Lesmo e si ruppe schiena e collo. Ma veniva da una nottata trascorsa alla guida di un auto perché non c’erano più aerei da Parigi a Milano a causa del maltempo. Scampò per un soffio alla sciagura di Le Mans, la 24 ore del 1955. Evitò la Mercedes che invece piombò sul pubblico: le vittime furono 84, centinaia i feriti.
Quando cominciò a correre in Europa e in Formula Uno aveva già 38 anni. Si ritirò nel 1958, dopo la morte di Luigi Musso. Gareggiò in 51 Gran premi, ottenne 24 vittorie, finì 10 volte secondo. E poi decine e decine di successi e piazzamenti in altre gare di velocità e durata. Nel febbraio del ’58 fu protagonista, prima dell’uscita di scena, di un curioso episodio. Venne rapito a Cuba dagli uomini di Castro che volevano richiamare l’attenzione sulla lotta rivoluzionaria e screditare il regime di Fulgencio Batista. Un sequestro lampo: poco più di 24 ore, giusto il tempo per non farlo correre. Fu trattato con grande rispetto e rilasciato con mille scuse.
L’ultima sua vittoria ha ancora il sapore della grande impresa. Avvenne il 4 di agosto del 1957 sul circuito del Nurburgring: la sua Maserati dovette recuperare oltre 50 secondi ai battistrada con la corsa avviata alla conclusione. A dieci giri dalla fine cominciò ad eseguire una serie di performance, abbassando il tempo ad ogni giro e dimostrando tutto il suo talento. Superò i due ferraristi, Collins in uno stretto rettilineo e poi Mike Hawthorn in curva andando a finire con le ruote sull’erba. Passò lui e fu ancora campione. «Mentre guidavo e correvo rischi di molto oltre il limite decisi che, dopo quella corsa, non avrei mai più guidato in quel modo nel resto della mia vita»: lo disse in un bel film-documentario che Hugh Hudson,l’autore di Momenti di gloria, girò su di lui nel 1980: Fangio, forse uno dei migliori lungometraggi sulla Formula Uno.
Questa fu la storia di Juan Manuel Fangio, detto el Chueco, per via delle gambe storte. Ma per tutti gli altri fu necessariamente el Maestro.