Andrea Carraro
Due narratori a confronto

Lo scrittore/artigiano

Il mestiere della scrittura e il rapporto tra finzione e realtà. Dialogo tra Andrea Carraro e Raul Montanari, a partire dal suo nuovo romanzo: «Il regno degli amici»

L’ultimo, bellissimo libro di Raul Montanari – Il regno degli amici (Einaudi, Stile Libero, pp. 314 18 euro) – racconta il passaggio di una conradiana linea d’ombra fra adolescenza e maturità, attraverso una sorta di rito iniziatico-sacrificale, con relativa perdita di innocenza. Lo scrittore bergamasco ha scritto una ventina di libri nella sua prolifica storia di narratore – noirista e non – e di poeta. Confesso di non averli letti tutti, però mi sono fatto l’idea che quest’ultimo sia il suo romanzo migliore, che rappresenta un po’ una summa del suo lavoro. È da qui che sono partito in questa conversazione…

«Penso che uno scrittore racconti bene due età: quella che ha ora e quella in cui ha provato le emozioni più intense, che per me è stata l’adolescenza. Nell’adolescenza un uomo incontra se stesso una volta per tutte, diventa quello che sarà per il resto della vita».

L’idea di letteratura che si rispecchia nei tuoi libri è quella di uno scrittore “umile”, che sa sporcarsi le mani, che non abita una torre d’avorio, interessato a raccontare al meglio una storia, con personaggi credibili, servendosi di una lingua romanzesca caratterizzata da un elevato grado di comunicatività (anche se mai banale o sciatta). Insomma un artigiano della parola scritta piuttosto che un “demiurgo” alle prese con temerarie e grandiose opere-mondo. Forse questa immagine deriva anche dal fatto che sei uno che fa letteratura a 360 gradi: romanziere, traduttore dall’inglese ma anche dal greco antico e dal latino, poeta, animatore culturale con il tuo Festival di narratori italiani Presente Prossimo e la tua celebre scuola di scrittura. Ti riconosci in questa immagine forse un po’ desueta nel nostro panorama editoriale sempre a caccia di “geni più o meno incompresi” o di “fenomeni” e  incapace di creare veri romanzieri (nel senso tradizionale del termine) – rispetto alla letteratura anglosassone per esempio?

raul montanariSono d’accordo con quello che dici. L’Europa continentale (non solo l’Italia, ma anche Francia e Germania) ha sempre visto lo scrittore anzitutto come un artista, mentre il mondo angloamericano lo vede piuttosto come un artigiano e un professionista. È impressionante la modestia di autori americani da milioni di copie rispetto alle pose ridicole che certi assumono appena pubblicano il loro primo librino. Questa concezione sacrale della letteratura è giustificata quando si ha davanti un genio, ma i geni autentici sono pochi: Busi lo è, e la sua arroganza tranchant per me è legittima. Per modestia, non intendo solo un tratto caratteriale, ma un atteggiamento che, come dici giustamente, influenza la scrittura, la ricerca di un rapporto con il lettore per cui tu non sei sopra e lui sotto, ma ci si guarda negli occhi.

C’è una letteratura italiana nella quale ti riconosci? Quanto è casuale che il protagonista del tuo romanzo legga e si riconosca, anche ironicamente, nei Promessi Sposi?

Parlando di maestri, nei primi anni, quando scrivevo soprattutto racconti e romanzi brevi, ero influenzato da autori come Calvino e Buzzati, dalla loro letteratura fatta soprattutto di idee. Adesso credo di riconoscermi di più nei veri romanzieri, come Moravia, Berto, Chiara, per capirci. Il romanzo non è più lungo del racconto, è più largo: intanto che ti racconta la storia prende dentro più mondo, più vita. Fra i narratori d’oggi, come autore mi sento vicino a quelli che mettono lo stile al servizio della storia che raccontano e non viceversa, come Ammaniti. Come lettore ho invece gusti più ampi, e mi piacciono anche i grandi sperimentatori del linguaggio come Nove e Scarpa. Quanto ai Promessi Sposi, è un capolavoro vero da riscoprire fuori dalle angustie della scuola.

In questo libro io ci ho sentito tanto Stephen King (quello di Stand by me e di tanti racconti) ma anche altra letteratura americana (Jack London, Hemingway, alcuni postmoderni). Il tema della “perdita dell’innocenza” per esempio è molto più sentito da loro che da noi.

D’accordo con i nomi che hai fatto, a cui aggiungerei alcuni autori che ho tradotto e che mi hanno impressionato profondamente, come Poe, Stevenson e il grande Cormac McCarthy. In particolare, credo che L’isola del tesoro di Stevenson sia forse la più grande narrazione sulla forza del male, sull’attrazione misteriosa verso la metà oscura: nelle letture che si fanno da ragazzi è il primo libro in cui il personaggio malvagio, Long John Silver, è molto più affascinante dei buoni.

Il regno degli amici è un racconto sull’adolescenza. E dunque anche sulla scoperta del sesso, anzitutto onanistico. Ha un valore simbolico (magico, rituale) potente, per esempio, la masturbazione del protagonista assieme all’amico, fianco a fianco.

Poiché si scrive da adulti, quando si descrive il sesso si tende a dimenticare quanto ci appariva minaccioso da ragazzi! Nell’adolescenza i maschi hanno paura delle femmine e viceversa, paura di sbagliare o di essere rifiutati, per cui certi rituali di condivisione fra giovani dello stesso sesso sono un primo approccio, un apprendistato emotivo alla nudità, alla stranezza degli organi genitali (che non assomigliano a niente di ciò che del corpo siamo abituati a mostrare). Per i maschi è più facile perché la pornografia è un materiale che si presta alla condivisione.

In questo romanzo racconti un’epoca con le sue mitologie: musicali, merceologiche, ideologiche, sociali, con verità e un pizzico di nostalgia. Si stava meglio allora? Nostalgia, anche, per quanto Demo avrebbe potuto fare e non ha fatto?

Ho ambientato il romanzo negli anni ’80 perché è il decennio del grande passaggio da un mondo relativamente semplice, dominato da ideologie che aspiravano a cambiare la società, a un mondo complesso, dove il proliferare delle tecnologie fa sì che il nostro compito sia anzitutto quello di apprendere dei linguaggi e delle competenze, e solo in secondo luogo ci si chieda di essere attivi, creativi. Ammesso che qualcuno ce lo chieda davvero! Non a caso nel romanzo convivono retaggi del passato, come il conflitto comunisti-fascisti, e la svolta verso il futuro che avviene quando il padre del protagonista lascia la fabbrica per andare a lavorare nei computer.

Tocchi anche nel libro – con leggerezza – temi alti, altissimi: l’esistenza o meno di Dio, la fede (penso ai furti in chiesa delle candele con relativo rimorso), il senso di colpa, la Morte.

Questi temi sono adolescenziali per eccellenza! Da bambino a queste cose non pensi ancora, e quando poi cominci a lavorare e a essere distratto dalla quotidianità non ci pensi quasi più. L’adolescenza invece è l’età metafisica, quella in cui ti confronti con le vette e gli abissi. Quando un adolescente pensa alla fine della vita pensa alla morte; un adulto pensa alla vecchiaia.

E che mi dici della storia d’amore con Valli? Ho letto pochi libri nella mia vita in cui questo sbocciare del sentimento amoroso è raccontato con la stessa purezza, grazia, con lo stesso “incanto”…

Forse perché l’incontro fra il sedicenne Demo e la quattordicenne Valli è raccontato nel modo più verosimile, senza forzature. La poesia non è aggiunta dal narratore, viene fuori naturale dai due ragazzi, dall’attrazione e dalla paura che hanno l’uno verso l’altra. E poi il lettore è vicinissimo a Demo, con la sua timidezza, il suo senso di inadeguatezza che sono emozioni comuni; Valli alla fine è solo una povera ragazzina che pesca in un fetido canale milanese, eppure la sua bellezza scontrosa la rende magica e indimenticabile. È impossibile non amarli.

Un altro tema tipicamente adolescenziale e a me caro: quello del gruppo maschile,  con il binomio coraggio/codardia, il clima di complicità cameratesca e sospetto che si instaura prima, durante e dopo l’omicidio; prima con toni leggeri, perfino comici a tratti, poi tragici.

Quando i ragazzi si installano nella casa abbandonata e ne fanno il loro Regno, tutto è di tutti. L’arrivo di Valli rompe questo equilibrio, perché Demo la vuole solo per sé: è l’eterno conflitto fra amicizia e amore. Demo vive l’innamoramento per Valli come un tradimento verso gli altri, sentendosi in colpa. Non a caso i due si vedono solo di nascosto e proprio da questa clandestinità nasce la svolta drammatica della storia, la notte in cui Valli va nel Regno ad aspettare Demo e fa invece un orribile incontro. Da questo momento in poi, il romanzo perde il tono divertito e gioioso della prima parte e assume cadenze dure e serrate.

Perché il protagonista narrante ha 30 anni e non la tua (nostra) età?

Perché dopo avere raccontato l’estate più incredibile della sua adolescenza volevo fotografarlo nell’età in cui si possono fare i primi bilanci. Demo voleva diventare giornalista e invece fa l’assicuratore: si è adattato a un lavoro che ai suoi occhi non ha nulla di romantico, come sta accadendo ormai a intere generazioni di ragazzi.

Bellissima l’idea di quel delitto come “linea d’ombra” che divide nettamente due periodi della vita e che gli amici dopo non si vedranno mai più.

Penso che un romanziere debba raccontare la realtà di tutti, i sogni, le paure, le sconfitte, però proiettandola su uno schermo più grande, legandola a qualcosa di eccezionale che aiuti la pagina ad avvincere il lettore. Così, a una certa età è normale che il gruppo esploda lasciando il posto ad amicizie individuali, ma qui accade dopo che tutti hanno partecipato a un evento drammatico, sotto un temporale estivo che sciacqua via la loro innocenza per sempre.

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