La Domenica: itinerari per un giorno di festa
Pietro e Paolo
Per la festa dei Santi patroni di Roma, le celebrazioni e i bagordi iniziavano dalla vigilia coi “Vesperoni” e il Coro della Cappella Sistina. Poi messe, processioni, botti ed epiche mangiate in osteria. Breve viaggio tra i riti e i miti del sacro e del profano…
Domani è il giorno di Roma. Perché la Capitale festeggia (o festeggiava? tanto è il degrado politico, estetico e morale) i suoi patroni. Ma l’eccitazione, almeno quella di una volta, durava dal 24 giugno, festa di San Giovanni, altro caposaldo del calendario capitolino. E dunque andiamo a scavare nelle radici della città, magari rifacendo le tappe che scandivano le due date e davano senso al passato e al presente. Per Pietro e Paolo la baldoria può cominciare alla vigilia, il 28 giugno, coi “Vesperoni” e il Coro della Cappella Sistina. Si benedicono i pallii, che il Papa sistema sulle spalle di patriarchi, vescovi e metropoliti. La lana del tessuto è preziosa: c’è anche quella di due agnellini benedetti il 21 gennaio di ogni anno, nella chiesa di Sant’Agnese. La mattina del 29, i riti nelle chiese ad hoc. A piazza Santissimi Apostoli, a San Pietro in Vincoli, dove sono conservate le catene che immobilizzarono Pietro, a San Paolo fuori le Mura, nella basilica der Cuppolone. Qui, in fila tra l’incenso, a baciare, a sfiorare, a consumare con lo struscio il piede del primo apostolo, creato in bronzo da Arnolfo di Cambio. Oppure alle Tre Fontane, dove San Paolo fu decapitato e la testa, rimbalzando tre volte, fece sgorgare altrettanti zampilli. Al tramonto, la processione (ricordare quella di To Rome with love di Woody Allen?). Con le catene di Pietro, o con quelle di Paolo, la reliquia di 14 anelli di ferro conservata nel tempio della via Ostiense.
La sera finiva in gloria con i fuochi d’artificio da Castel Sant’Angelo, una tradizione replicata anche ora. Ma i gaudenti romani di una volta continuavano a spassarsela il giorno dopo. Con la gita fino all’“Osteria del 31”, oltre Porta Cavalleggeri. O da “Scarpone” a San Pancrazio, o da “Capoccetta”, o al “Belvedere”, sulle rive del Tevere. Era un viavai di giocattolai e ambulanti. Imperavano i porchettari con lo slogan “La porchetta di Cadorna chi la magna ciaritorna”. Risate e preghiere, ex voto e tressette. E sovrapposizione di date. Su Pietro e Paolo la tradizione si nutre di imprecisioni. I due venuti dalla Giudea si salutarono nei pressi della Piramide di Caio Cestio. Il Carcere Mamertino si dice fosse la loro prigione. Ma non furono martirizzati lo stesso giorno. Pietro fu crocifisso a testa in giù (come nel dipinto di Caravaggio a Santa Maria del Popolo) presumibilmente nel 64 dopo Cristo, durante la persecuzione neroniana dei cristiani. Paolo nel 67. Da cittadino romano, non gli toccò l’onta della croce, fu decapitato. Abbinarli nella devozione è tornare alle origini di Roma, travasare in loro i fondatori dell’Urbe, Romolo e Remo. Principi pagani e principi della Chiesa, le due facce della caput mundi. Ma venerati da più di duemila anni quelli con l’aureola, santi della porta accanto, tanto che i ragazzini, giocando nel vicolo li apostrofavano: «San Pietro e San Paolo, apritece le porte!». E i pischelli della squadra avversaria: «Le porte stanno aperte pe’ cchi ce vòle entrà».
Del resto anche la festa di San Giovanni è puntellata da imprecisioni e miscuglio di sacro e profano. Si credeva che fosse quella del Battista la notte più corta, tradendo il calendario astronomico ma facendo in questo modo combaciare la sua aureola con quella del primo sole estivo. Tenebre brevi dunque, che imponevano alle streghe di andarsene. Il sole fa capolino presto, e le acceca. L’antica festa radunava sulla spianata della Basilica bancarelle, cantastorie, giostrai. Perché si favoleggiava che proprio tra la chiesa e la Scala Santa (con gli affreschi appena restaurati a cura del Vaticano) avvenisse il sabba delle streghe. Infatti era qui che lo spettro della crudele Erodiade – la fedifraga che impose al cognato-amante Erode Antipa di tagliare la testa al Battista – vagava senza pace. E gemeva tra i prati del Laterano un altro spettro, quello della figlia Salomè. Il gruppone delle streghe dava manforte all’adultera. Bisognava dunque scacciare le maligne. Per questo i “romani de Roma” accorrevano in massa, accendendo falò, agitando campanacci. Attenti però a non svegliare “er Nocchilia”, il mostro apocalittico nato dalla fusione dei profeti Enoch ed Elia. Lui dorme sotto la Scala Santa, come ben sa Gioachino Belli che ne La fine der monno lo evoca: «…Poi pe combatte co sta brutta arpia/ Tornerà da la bbùscia de San Pavolo/ Dopo tanti mil’anni, er Nocchilia…».
Dopo la notte infernale, l’elegia della campagna romana. Si andava fuoriporta a mangiare le lumache in umido. Il motivo? Nel medesimo periodo dell’anno gli antichi romani celebravano la dea Concordia. E siccome le corna, al tempo dei buoni Quiriti, simboleggiavano la discordia, farsi una scorpacciata di chiocciole, per di più affogate nel sughetto, significava mettere al bando le liti. Chissà se sono disposti al manicaretto Matteo Renzi e Ignazio Marino, il sindaco d’Italia e quello di Roma, ai ferri corti quando ormai troppi hanno messo le mani sulla città.