Lettera da Chigago
Fantasmi d’America
Dopo la strage di Charleston, l'opinione pubblica americana cerca di capire perché il razzismo sia ancora così vivo e violento in un Paese che ha fatto dei diritti la sua ragione di vita
Il massacro della chiesa metodista-episcopale nera avvenuto a Charleston in South Carolina pochi giorni fa è stato definito a ragione uno spartiacque nella storia americana. Anche se certo non è una novità in questi ultimi tempi dove le violenze razziali sono esplose in tutti gli Stati Uniti e dove è sempre troppo facile procurarsi delle armi. Questo evento però ha qualcosa di diverso, perché porta all’attenzione un problema nuovo che affonda le sue radici nella carne viva del paese e lo costringe a farsi un esame di coscienza come mai prima d’ora.
Una strage, quella di Charleston, a sfondo razziale che ha lasciato sul terreno nove morti ad opera di un giovane poco più che ventenne, Dylann Roof, seguace dei suprematisti bianchi. A molti, questa strage ha ricordato quella del 1963 nella chiesa battista di Birmingham in Alabama dove a causa di una bomba, piazzata dal Ku Klux Klan, morirono 4 bambine nere. Quell’evento drammatico segnò l’inizio delle lotte per i diritti civili in tutti gli Stati Uniti, questa di oggi rappresenta la conclusione – come ricorda Clarence Page sul Chicago Tribune – della guerra civile americana. Ma com’è possibile, si chiederà qualcuno, che si possa parlare di diritti civili se prima non si sono risolti nodi essenziali come quello della guerra civile? Proprio qui sta il problema. Di quella guerra tra gli stati del sud e quelli del nord divisi proprio dalle battaglie razziali che vedevano questi ultimi specie con l’elezione di Abraham Lincoln battersi contro la schiavitù si portano ancora le tracce. Gli stati del sud, riuniti in una confederazione adottarono una bandiera, the Confederate Flag, che non ha mai cessato di essere il simbolo della loro unità, ma anche quello di una supremazia bianca a cui hanno fatto appello sia in passato sia oggi le organizzazioni razziste come il Ku Klux Klan. Il giovane che ha compiuto la strage in South Carolina infatti brandiva proprio questa bandiera quando è entrato nella chiesa e ha aperto il fuoco intenzionato, come egli stesso ha affermato, ad iniziare una guerra razziale. Un simbolo che ha rappresentato e continua a rappresentare l’unità degli stati del sud contro l’abolizione della schiavitù. Si tratta, dunque, di un simbolo di divisione razziale che tuttavia ancora sventola su molti dei parlamenti locali degli stati del sud. Perché?
Perché, si è continuato a ripetere in tutti questi anni, non è giusto cancellare la storia. E questo è vero, ma, come ha affermato un giovane giornalista nero della CNN, Don Lemon, si deve anche cominciare a guardare al futuro. E dunque se quel simbolo è il coagulo di una storia che rappresenta una coltellata al cuore a gruppi etnici, come i neri, che di segregazione hanno sofferto e sono morti, deve essere eliminato. Non è un caso che la governatrice indiano-americana della South Carolina, Nikki Haley, repubblicana, d’accordo con il senatore nero anch’esso repubblicano, Tim Scott e con l’altro della South Carolina Lindsey Graham, ha chiesto di rimuovere la bandiera dal palazzo del governo. La richiesta sarà presentata a brevissimo termine al Parlamento dello Stato. Ed è proprio su questa scelta che il paese si sta misurando, sta affrontando un dibattitto in profondità andando alle radici della propria storia, analizzando anche la terminologia che ne è stata il fondamento.
Val la pena di prestare attenzione a due notazioni interessanti che il presidente Obama da quando è avvenuta questa strage ha sottolineato. La prima, subito dopo il massacro, in un intervento a caldo, quando ha messo assieme razzismo e facilità nell’ottenere armi in questo paese e la seconda, successivamente, quando in un programma radiofonico abbastanza provocatoriamente invece di usare l’espressione N-word, che sta per niger=sporco nero, bandita nella maniera più assoluta dal vocabolario della politically correcteness ha invece usato, riportando una citazione, la parola nella sua interezza. Una cosa che finora era permessa solo ai rapper neri americani. I neri stessi si sono divisi e alcuni di loro si sono scandalizzati che proprio il primo presidente nero degli Stati Uniti avesse usato quella parola, mentre altri hanno detto che forse quello era un modo per fare finalmente i conti con una realtà che, seppure è post diritti civili, rimane tuttavia ancora esposta ai rischi di chi vive di un passato mai superato e che torna a galla con troppa facilità. E vivere con i fantasmi non va bene: siano essi la Confederate Flag, cristallizzazione di un passato di dolore, o una politically correctness che non è riuscita a sradicare il razzismo e che non ha smantellato le casematte della discriminazione.
Allora questi fantasmi affrontiamoli perché, come dice Toni Morrison in Beloved, non si presentino all’appello da soli indossando le scarpe nei piedi sbagliati. Solo così potremo convivere con un passato che, se non si può cancellare, lo si può certamente superare. We shall overcome.