Il dittatore, dalla mediocrità al male
La banalità del giovane Hitler
La ponderosa biografia del Führer di Ian Kershaw ricostruisce il grumo di ordinarie scelleratezze, incomprensioni e solitudini giovanili che (loro malgrado) diedero una piega tragica alla storia dell'Europa
La biografia Hitler di Ian Kershaw (Bompiani, 79 euro), nonostante la mole davvero imponente (due volumi di oltre 1000 pagine ciascuno) sarebbe bello che si trovasse in ogni casa per la sua straordinaria ricchezza documentaria, l’affidabilità della ricostruzione, la forza classica dell’esposizione (di chiara impronta anglosassone). La lettura di questo libro credo sia fondamentale per una valutazione della personalità del tiranno tedesco; ma pure per fare definitiva chiarezza sull’ascesa del Terzo Reich e sulla sua rovinosa caduta, coincidente con il suicidio nel bunker.
Il primo volume copre un arco di tempo che va dal 1889 (data di nascita di Hitler) fino al 1936, e affronta un periodo meno conosciuto della vita del futuro dittatore: l’infanzia presso Linz, la prima giovinezza a Vienna e a Monaco, le imprese belliche, il rientro a Monaco con il tardivo congedo dall’esercito, i primi raduni nazisti e le prime allocuzioni pubbliche, il tentato putsch del 1923 fino all’elezione a Cancelliere nel gennaio del 1933 e all’occupazione della Renania nel 1936.
Il secondo volume racconta gli ultimi e più tristemente noti dieci anni di vita del Führer, dall’apice della gloria e dell’adorazione collettiva al crepuscolo nel bunker berlinese, attraverso la maestosa parentesi delle Olimpiadi di Berlino, l’Anschluss, la crisi dei Sudeti, la disastrosa campagna di Russia, lo sterminio degli ebrei, le cospirazioni ordite contro di lui ecc.
Personalmente, mi sono appassionato di più alla prima parte, non perché sia di livello superiore, ma perché conoscevo meno la materia. In essa lo storico inglese traccia le coordinate ancora incerte della complessa personalità di Adolf, suggerendo una chiave di interpretazione della sua sinistra maturità. Il risultato ultimo è un ridimensionamento del suo ruolo individuale. In questa prima parte seguiamo gli studi zoppicanti del piccolo Adolf, figlio di Alois, impiegato dell’amministrazione austriaca collerico e violento, di una severità spesso gratuita. Padre e figlio litigano spesso. Il motivo dichiarato dei loro scontri sono i mediocri risultati scolastici di Adolf, ma, scavando un po’, non è difficile ravvisare nel loro rapporto un classico sostrato edipico. Alois era l’impiegato statale archetipico: ligio al dovere, ridicolmente fiero della propria posizione, del tutto sprovvisto di senso dell’umorismo. Adolf lo odiava, pur somigliandogli per alcuni versi, e per contro era molto legato alla mamma, la quale viveva nella perenne preoccupazione dei castighi che il marito infliggeva al figlio. È certamente da questo rapporto tormentato con il padre che si sviluppa il carattere introverso, solitario del ragazzo, incline a sognare a occhi aperti e a improvvise accensioni isteriche, il suo disprezzo per la carriera impiegatizia del padre, che, dopo aver abbandonato la scuola, rifiuta risolutamente di seguire. Adolf sogna di fare l’artista. Dopo la morte del padre, trascorre a Vienna insieme a un amico musicista un’esistenza da bohemien, tuttavia fallendo per due anni consecutivi l’esame di ingresso all’Accademia d’arte. La morte dell’amata madre lo scuote nel profondo, ma non modifica le sue abitudini, il suo disprezzo verso il lavoro paterno e verso il lavoro tout court.
Grazie all’eredità familiare e a una piccola rendita da orfano, Hitler vive nella capitale austriaca (percorsa da fremiti nazionalisti e antisemiti) senza l’obbligo del lavoro. Si sveglia tardi la mattina, frequenta i caffè, pontifica con il suo amico musicista Kubizek e con i (rari) conoscenti, soprattutto di musica: in particolare sulle opere di Wagner, di cui è un fanatico, ma anche sulla decadenza dell’arte moderna ch’egli dal suo privilegiato osservatorio viennese poteva osservare da vicino. In questa fase della sua vita, assai povera di rapporti umani e vieppiù sentimentali, la politica occupa un ruolo marginale e raramente i fluviali monologhi del giovane Adolf la riguardano. Nell’ultimo periodo a Vienna, consumata l’eredità paterna, vive poveramente, frequentando reietti e miserabili di tutte le risme, e passando le notti nei dormitori pubblici. Un’esperienza drammatica, per quanto di breve durata, celebrata ed enfatizzata nel Mein Kampf. Finché, per risollevarsi economicamente, comincia a dipingere vedute cittadine vendendole a privati e a piccoli commercianti (perlopiù ebrei).
Ma il suo antisemitismo, la sua fanatica ideologia nazionalista e anticomunista, in generale la sua Weltanschauung, si delinea meglio a Monaco nei mesi che precedono la Prima Guerra Mondiale e durante il conflitto. «Se molti si apprestavano a combattere a malincuore e per senso del dovere, altri erano divorati dalla febbre d’azione». Hitler era fra questi. Nutriva una idea della guerra come esperienza quasi mistica di rinascita spirituale e di rinnovamento della Nazione. E fu la guerra che diede finalmente un obiettivo e una regola alla sua vita. E penosissima fu la sconfitta e il rientro in una società tedesca prostrata e socialmente disgregata dove allignavano sommosse, scioperi, che sfociarono infine nella Rivoluzione del 1919. Adesso l’odio di Hitler per i rossi e per gli ebrei si accende e diventa l’oggetto privilegiato delle sue ossessioni e delle sue invettive.
Il “tribuno da birreria” comincia a farsi conoscere e a raffinare le sue arti oratorie dando l’abbrivio a una folgorante carriera politica che lo porterà in pochi anni all’acme del potere e della gloria e poi, ancor più rapidamente, alla catastrofe personale e mondiale.