Vasilij Grossman, “Uno scrittore in guerra”
Nello studio di Hitler
«Chi scrive ha il dovere di raccontare la verità… chi legge ha il dovere civile di conoscerla»… Adelphi pubblica i taccuini dello scrittore ucraino, inviato dal fronte per “Krasnaja zvezda”
Di questo 2015 che si raccorda di mese in mese a quanto avvenne settant’anni fa – un 1945 liberatorio e terribile, perché finisce la guerra ma si scoperchiano gli orrori nazisti – un libro appena uscito vibra di inedita testimonianza. È Uno scrittore in guerra a cura di Antony Beevor e Luba Vinogradova (Adelphi, 471 pagine, 23 euro), che pubblica per la prima volta i taccuini di Vasilij Grossman, nato in Ucraina nel 1905 da colta famiglia ebraica, fedele al regime sovietico allorché Mosca entrò nel conflitto, al punto di chiedere, lui scrittore e intellettuale, di andare al fronte, nonostante il fisico e l’attitudine mentale poco adatta. Più che mettergli in mano una mitragliatrice lo armarono di penna e ne fecero un inviato speciale per il giornale dell’esercito sovietico Krasnaja zvezda, ovvero “Stella rossa”. Per oltre mille giorni egli seguì i principali fronti di battaglia: la sua Ucraina, dove era rimasta la madre, la difesa di Mosca, l’assedio di Stalingrado, fino al rovesciamento delle sorti del conflitto con la cacciata delle truppe di Hitler e l’arrivo di quelle di Stalin a Berlino. Questo vissuto sarà l’ossatura del capolavoro di Grossman, Vita e destino, uscito in Italia nel 2008. E verrà piegato, come nell’ultimo romanzo Tutto scorre… (Adelphi 1987), a un opposto punto di vista dello scrittore, che da patriottico diventa antistalinista dopo aver interiorizzato la bestialità della dittatura e aver trovato il coraggio di opporsi alle “purghe” dei dissidenti o ai pogrom visti fin dagli anni giovanili.
Ma intanto in Uno scrittore in guerra già si trovano corrispondenze non contaminate dalla retorica ufficiale, vivide di incontri sul campo, di presenza costante dell’autore nei luoghi e nelle situazioni narrati, di resoconti e perfino di pezzi di “colore” di prima mano, tanto è capace Grossman di descrivere con partecipazione la vita quotidiana dei combattenti, dei civili, degli assediati, dei sofferenti. Insomma, articoli sinceri, e dunque apprezzati non solo dai militari, ma dai cittadini, consapevoli di ricevere notizie autentiche. L’onestà dell’inviato sul fronte (che non si iscrisse mai al Partito) rende perciò di grande interesse storico i taccuini, usciti ora per la prima volta dagli archivi russi. Lo storico inglese Beevor ne fa così il leit motiv per la ricostruzione delle vicende dell’esercito di Mosca dal 22 giugno 1941, quando la Germania nazista invade l’Urss, al contrappasso del 2 maggio 1945, allorché Berlino capitola sotto i colpi di maglio dell’Armata Rossa.
«Il Reichstag. Enorme, imponente – scrive Vasilij senza dissimulare l’emozione. Nel vestibolo i nostri soldati hanno acceso falò. Sbatacchiare di gavette. Aprono le scatole di latte condensato con la baionetta». E mentre gli ufficiali di più alto grado sono alla disperata ricerca del cadavere di Hitler, a lui tocca pure il “privilegio” di varcare la soglia dello studio del dittatore, di aprire i cassetti della scrivania e trovarci i timbri con la scritta “Il Fuhrer ha approvato”, “Il Fuhrer ha confermato”. «Grossman ne prese alcuni che adesso si trovano nell’archivio dove si conserva il suo lascito», annota Beevor. Mentre lo scrittore così racconta: «Lo studio di Hitler. La sala dei ricevimenti. Un gigantesco vestibolo dove un giovane kazako dal volto olivastro e gli zigomi marcati impara ad andare in bicicletta. Ogni tanto cade…».
Brandelli di umanità, primi piani allucinati, un’irreale iperrealtà permea i taccuini. L’entrata in una spettrale Varsavia, per esempio, nel gennaio 1945. Il ponte sulla Vistola è stato dilaniato a un’esplosione, Grossman deve arrampicarsi sulla scala antincendio di un pilone, oscillante al vento, prima di conquistare il lungofiume. «In quel mentre, la sentinella, un anziano soldato dell’Armata Rossa, in piedi accanto a un focherello acceso sulla banchina, dice con tono bonario all’artigliere che è lì con lui: Ecco fratello, guarda che bel pezzo di pane secco mi son ritrovato in tasca, adesso ce lo mangiamo. Sono queste le prime parole da me udite a Varsavia…». Fa pure l’atroce scoperta dei campi di sterminio di Treblinka e Majdanek, l’inviato Vasilij. Nessun commento, solo un’agghiacciante descrizione, come giornalismo di cronaca insegna: «L’esperto giunto dalla Germania andava avanti e indietro tra i forni da mane a sera, immancabilmente entusiasta e ciarliero. La gente afferma di non averlo mai visto non dico accigliato ma neppure serio, il sorriso non abbandona mai il suo volto…Talvolta le SS organizzavano una sorta di picnic nei pressi dei forni: si sedevano sottovento, bevevano vino, mangiavano e fissavano le fiamme». Del resto Grossman aveva avvertito il lettore (e l’eventuale censore) sul proprio principio deontologico: «Chi scrive ha il dovere di raccontare una verità tremenda, e chi legge ha il dovere civile di conoscerla, questa verità».