In scena all'India di Roma
Per un teatro civile
Piero Maccarinelli ha riscoperto e portato in scena “L'Esposizione Universale”, un testo di Luigi Squarzina sulla speculazione edilizia del dopoguerra. E poi dicono che non c'è drammaturgia contemporanea...
Si lamenta spesso quanto il teatro sia povero di nuovi testi, quanto la drammaturgia contemporanea langua di autori. Ma c’è pure il paradosso di un lavoro di settan’anni fa, firmato da un grande regista italiano, vibrante di tematiche politico-sociali mai andato in scena, se non una volta nel 1955 in Polonia. Adesso il Teatro di Roma ha alzato il sipario su “L’Esposizione Universale”, scritto da un ventiseienne Luigi Squarzina nel 1947. Il debutto il 9 giugno al Teatro India (repliche fino al 14 giugno), con un parterre di volti noti: Lina Sastri, Paola Gassman, Giulio Scarpati, Gianni Letta, Claudio Strinati, Lidia Ravera, Salvatore Nastasi tra gli altri. Col pubblico che gremiva la austera sala d’archeologia industriale, sullo sfondo del Gazometro, hanno seguito con partecipazione lo spettacolo diretto da Piero Maccarinelli. Partecipazione e concentrazione, quanta ne richiede un testo e una messinscena che scava nelle contraddizioni private e pubbliche di una Roma dell’immediato dopoguerra, popolata da personaggi più incerti nella transizione dal fascismo alla democrazia che animati da leale speranza di ricostruzione, della città e della propria vita.
Squarzina ha affidato la sua impietosa ricognizione in un milieu storico e sociale a ben diciannove personaggi. Diciannove attori che spesso sono in gran numero sulla scena, scontrandosi in caratteri e interessi, rappresentando un caos difficilmente domabile. Perché il maggior numero di loro sono sfollati che hanno occupato gli spazi incompiuti, magniloquenti ma anche scheletrici, dell’Esposizione Universale dell’Eur, grandioso progetto mussoliniano concepito per il 1942 e fermato dalla guerra. L’azione si svolge appunto appena il conflitto è terminato, nel 1946 (Squarzina scrive tra il 1947 e il ’48). I derelitti costretti a condividere spazi stretti – tra brande, tavoli per mangiare, sedie, valigie, casse di legno, bacili – sono una vedova con le sue due figlie, una gravemente malata, l’altra, Elli, che si procura qualche soldo per la madre e la sorella trafficando di contrabbando con un brigadiere di polizia, del quale giocoforza è l’amante. Con loro un professore epurato perché fedele al fascismo e al quale i partigiani hanno ucciso un figlio, un fotografo senza nulla da fotografare, un avvocato senza cause da difendere, un suonatore gobbo, un giovane chiamato Bartali perché sogna di sfondare nel ciclismo ma intanto usa la bicicletta per andare a vendere gelati, un disoccupato con la moglie incinta. Convivono in un equilibrio di inevitabile solidarietà. Ma l’andazzo si modifica quando il brigadiere Tamburini è trasferito in Sicilia e tra gli sfollati arriva Remo, appena sfuggito alla cattura perché durante una manifestazione di disoccupati ha colpito il ministro dell’Interno. E piomba nell’assortita comunità anche un sedicente giornalista, Barzilai, che con la scusa dell’inchiesta sugli sfollati vuole farli sloggiare per rendere possibile un colossale investimento immobiliare nell’E42. Ecco che rettitudine e lealtà scricchiolano tra quei poveracci. Elli si innamora di Remo, eletto portavoce degli sfollati ma poi corrotto da Barzilai al punto di convincerli a lasciare l’Esposizione per andare nelle baracche ai Parioli. Tamburini torna e vuol riprendersi Elli ma diventa pure un violento tutore dell’ordine quando gli sfollati provano a resistere nel loro fortino occupato. Remo, raggirato dal finto giornalista che gli ha promesso pure in moglie la ricca figliastra Nora, ammazza Barzilai e la polizia fa fuori quanti sono restati arroccati a difendere con le armi i bianchi scheletri di marmo. E la carneficina è giustificata dal brigadiere come un banale fatto di cronaca, una resa dei conti tra la testa calda e l’affarista spregiudicato che ha intascato anche i soldi di Nora.
Restano così tutti schiacciati dal “ventre dentato della Storia”, come aveva osservato amaro il professore. In una rappresentazione che nessuno assolve ma fotografa la difficile transizione italiana verso la democrazia: ex fascisti e antifascisti, liberali, filocomunisti, democristiani. Proprio per questo, pur avendo ottenuto nel 1949 il Premio Gramsci, il dramma di Squarzina – esempio di teatro sociale non troppo praticato in Italia – non fu rappresentato, subendo una inconfessata censura, non solo ideologica ma anche legata agli interessi dei poteri forti, quelli che hanno fatto della speculazione edilizia uno dei mali di Roma. Altra difficoltà di messinscena, la necessità di un cast troppo nutrito. Nell’allestimento odierno, prodotto dal Teatro di Roma, affiancano Luigi Diberti e Stefano Santospago (rispettivamente il professore e Barzilai) gli interpreti del Corso di perfezionamento per gli attori della Scuola del Teatro di Roma, impegnati con successo in una prova non facile. Perché un limite al testo è proprio l’ipertrofica articolazione dei personaggi, che tiene alcune figure in eccessivo sottofondo e ne fa però elemento di confusione. Il dramma ne risulta in qualche modo appesantito, qualche battuta reca retorica, qualche altra ironia gratuita. Meglio poi sarebbe stato dividere lo spettacolo, che dura 2 ore e venti senza intervallo, almeno in due parti (il testo prevede tre atti). Anche questo un modo per renderne più agevole la fruizione.
Resta comunque la suggestione e il merito dell’intera operazione culturale: fa conoscere un testo importante soprattutto perché svela una tranche di vicende della Capitale e tirando fuori quanto avvenne settant’anni fa a Roma spiega ciò che accade oggi, tra malaffare, speculazioni, occupazioni, abusivismo. Esemplare infine l’impianto scenico, pure di Piero Maccarinelli. Un intreccio di nudi piani praticabili e tavole di legno sullo sfondo di una mezza parete grigia, il “muro” che chiude l’asfittico mondo degli sfollati. Un muro oltre il quale scorrono i freddi, lontani, nemici marmi dell’E42.