Pasquale Di Palmo
Lo zibaldone di Massimo Morasso

Incontri di un flâneur

Ne «Il mondo senza Benjamin» confluiscono testi di varia natura nello stile caleidoscopico del filosofo tedesco. Da Vivien Leigh a Bach, da Cristina Campo a Balthus a Michel Petrucciani, un carosello di temi analizzati con la precisione dell’entomologo

È un libro composito questo di Massimo Morasso, una sorta di zibaldone sui generis in cui confluiscono testi di varia natura: si passa dal saggio erudito alla reminiscenza di taglio infantile, dal divertissement all’aforisma, dalla nota critica alla poesia, dalla narrazione – o pseudonarrazione – al carteggio. Senza soluzione di continuità, spaziando da un cammeo dedicato a Vivien Leigh, l’indimenticabile attrice di Via col vento a cui Morasso ha dedicato in passato svariati testi, a una dissertazione su Tarkovskij o Hans Arp, su Bach o Cristina Campo. Ma non mancano osservazioni sugli argomenti più disparati e inverosimili: dalle frequentazioni cimiteriali al segreto dei novantanove nomi di Dio, dall’efferato delitto di Chiavenna in cui due adolescenti infierirono gratuitamente sul corpo di una suora alle invenzioni surrealiste intorno all’immagine di Nusch, la musa di Paul Eluard.

Questo enciclopedismo in cui registro basso e sublime sembrano tranquillamente convivere è vissuto all’insegna di molteplici figure che ritornano ossessivamente a comparire dal disegno variegato del mosaico. Una di queste è quella di Walter Benjamin che, non a caso, viene menzionato anche nel titolo: Il mondo senza Benjamin (Moretti & Vitali, 2014, 368 pagine, 22 euro). Il brano eponimo non può che farci riflettere sul fatto che la nostra vita debba considerarsi depauperata senza il fondamentale apporto di qualche outsider di genio. L’omaggio al grande critico tedesco è, prima di tutto, mimetico, in quanto tutto il libro risente dello stile caleidoscopico di Benjamin, del suo tentativo di accumulare ogni sorta di dissertazione in contesti stilistici anche diversi. La figura stessa del flâneur, filtrata dall’opera dell’amato Baudelaire, costituisce un modello irrinunciabile con il quale confrontarsi, anche se in Morasso questo perdersi, questo girovagare fra i meandri di una città presenta connotazioni meno concrete, tese a creare legami “interiori” che hanno la stessa casualità, per citare Lautréamont, «dell’incontro fortuito di una macchina da cucire e di un ombrello su una tavola anatomica». Tale assunto ducassiano sarà rovesciato parodisticamente da Morasso fino a diventare, in uno dei suoi contributi, «l’incontro casuale di un astuccio per gli occhiali e di un calzino sul tavolaccio di un’osteria».

Il procedere divagante di Morasso può ricordare, soprattutto per quel che concerne la varietà e la vastità dei temi trattati, quello del “sulfureo” Ceronetti, senza tuttavia possedere la Weltanschauungdi taglio apocalittico, il moralismo profetico che caratterizza gli scritti dell’autore del Silenzio del corpo. Si tratta anzi di una visione del mondo che, nonostante non rinunci al suo retaggio spiccatamente speculativo, a cominciare dai numerosissimi riferimenti e citazioni di cui è infarcito il testo, presenta una forte repulsione nei confronti di tutto ciò che si possa considerare metaletterario o, se preferiamo, a taluni aspetti della letteratura gratuiti e vacui.

Copertina Il mondo senza BenjaminTale intento polemico è sotteso nella natura stessa dei testi che si rifanno, nel loro articolato (e disarticolato) carosello di temi trattati, ai modelli più disparati dello scibile, al fine di rendere tale «antimetodo di un flâneur dell’interiorità» alla stregua di «una smisurata, perturbante Wunderkammer immaginale», come recita la bandella di copertina. Ci imbattiamo così nei personaggi più vari e eterogenei che, magari per una frazione di secondo, hanno catturato l’attenzione di Morasso e che vengono descritti con la stessa precisione con la quale l’entomologo classifica la livrea di un insetto particolarmente raro. Dalle pagine del Mondo senza Benjamin sfila un carosello di varia umanità: dalla modella di Balthus, deceduta sotto le bombe dei tedeschi ancora bambina, al nonno Matto chiamato Gigio, dalle figure di Demeny e Izambard che conversano a Charleville del loro pupillo Rimbaud al pianista Michel Petrucciani, «affetto dalla sindrome delle ossa di cristallo».

E ancora: l’attrice hollywoodiana Jean Seberg («Ieri notte ero partito con l’idea di scrivere qualcosa su Jean Seberg. E questo, mi sembra, per via della struggente, incontenibile fragilità che avevo colto nei suoi occhi trafitti dal flash di uno dei tanti paparazzi che ebbero occasione di affliggerla. Mettendomi a scavare al di là di quell’immagine per esercitare una forma postuma di carità là dove la lama della fantasia incontra la carne viva, ero arrivato a convincermi che avrei potuto offrire una nuova possibilità d’esistenza a quella sventurata attricetta») e la cantante Selma-Björk, il pittore Balthus e l’astronauta Neil Armstrong, il primo caduto sulla spiaggia normanna e la moglie di Superman. Spesso sono le immagini a dare l’abbrivio a una serie di considerazioni che spaziano dall’argomento di cronaca alla divagazione di taglio filosofico o religioso, ma sempre con i piedi ben piantati per terra. D’altronde il volume stesso è costellato da una sequenza di fotografie che diventano parte integrante del testo.

Un’humanitas diversificata, immortalata in un attimo di estatica sospensione o accompagnata lungo il cammino di un’esistenza anonima e anomala, costituisce dunque il sottofondo del libro e si contrappone ai numerosi, potenziali autoritratti presenti. Lo stesso autore dichiara in una delle tre note introduttive: «Sazio di forme falsamente consolatorie, osservando le forme ibride e stranianti nelle quali vado componendo, testo dopo testo, il mio articolato itinerario mentale mi sono ormai convinto del fatto che la maggior parte dei miei scritti, in fondo, sono sempre in qualche modo autobiografici». A suggellare tale dichiarazione riportiamo il delizioso Piccolo testamento, scritto emblematicamente in versi:

«Non credo di lasciare molte cose, sulla terra.
Diverso sarebbe se fossi stato un uomo pratico, dedito al profitto e all’armonioso incedere del sogno di me stesso.
E invece mi sono dedicato a scandagliare l’invisibile.
È bene lavorare su noi stessi e diventare più buoni.
È bene tentare di rendere felici le persone che si amano.
È bene evitare lo sperpero delle parole, le piccole volpi.
Come istruzioni, credo che possano bastare».

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