Classici da ritrovare
Gli stranieri di Bowles
«Il tè nel deserto» di Paul Bowles racconta un Novecento ignoto a se stesso: come per Camus, è un libro dove l'ignoto è sinonimo di malattia diabolica
Non avevo mai letto Il tè nel deserto di Paul Bowles nonostante la versione cinematografica di Bertolucci lo avesse portato alla ribalta. Ricordavo, per frammenti, scene del film intense ma anche di un gusto vagamente hollywoodiano. Il libro è bello, e leggerlo non significa solo effettuare un viaggio avventuroso e spiazzante nelle terre aride e desolate del Maghreb. Bowles ha una prosa di classica ispirazione – ci senti dentro Hemingway ma anche Richard Yates – una prosa sorvegliatissima, votata alla chiarezza espressiva ma senza negarsi agli slanci cromatici e alle accensioni visionarie.
Nella prima parte del libro segui le sorti di una tipica coppia americana (Port, scrittore, lei, Kit, viaggiatrice e basta, entrambi con una personalità sfaccettata) e di un amico George Tunner, di carattere più convenzionale. Siamo in terra africana nel secondo dopoguerra. Lei lo tradisce segretamente con Tunner, durante un viaggio molto alcolico in treno. Intanto il marito viaggia in automobile con certi inglesi – madre e figlio effeminato – strani e intrusivi. I sensi di colpa di lei sono in qualche modo complementari a quelli di lui che nell’intimo sa di aver messo la moglie fra le braccia dell’amico, quasi per testare lo stato del suo matrimonio. Beninteso, non ci sono qui in gioco i classici valori di una coppia borghese di quell’epoca. O almeno non solo quelli. Port è uno scrittore in avaria di ispirazione che cerca se stesso in terra d’Africa e il senso del suo viaggiare ha certo a che fare con la sua professione. Lei vuole farlo felice, ma non ne è capace. Quei luoghi inospitali non le piacciono. Kit si sentirebbe meglio se potesse fare la viaggiatrice in Italia, in Grecia… La vera svolta del libro è la morte di lui, di Port, che a un certo punto, durante l’ennesimo scomodo spostamento in pullman da un luogo all’altro del deserto, smette quasi di parlare. Le sue condizioni appaiono subito gravissime. Kit, la sposa, gli è accanto, assiste alla sua torpida e fatale malattia, ma con la mente è altrove, e sono solo i morsi del senso di colpa che la trattengono. Con uno stratagemma si sono liberati dell’amico ed ora sono davvero soli. L’uomo giace in una stalla addormentato, buttato per terra con una mano abbandonata su una merda di cammello. Non ha la forza neppure di spostare la mano. Fuori da quel capanno il vento rovente del deserto annichilisce e schiaccia. Di lì a non molto l’uomo morirà. E il punto di vista della storia diventerà quello di Kit.
Prima c’erano due protagonisti, ora ce n’è uno solo. L’occhio di Bowles ruota su Kit, la quale Kit scappa, inutilmente le autorità algerine la stanno cercando, la giovane donna si aggrega a una carovana e diventa la schiava-amante di un arabo piuttosto ricco che la porta – travestita da ragazzo – a palazzo dove ha già tre concubine. Lei vive segregata in una stanza. Lui si fa vivo solo per prendersi del piacere. Kit è vestita da uomo, ma viene presto scoperta dalle concubine, che l’aiutano a scappare in cambio di qualche monile. Alla fine la prendono per matta, non sappiamo se lo sia, ma certo è che la sua esistenza è segnata a fuoco dall’esperienza africana che ha appena vissuto. Il libro ha molti strati come tutti i capolavori. Per certi versi è gemello de Lo straniero di Camus. Anche Kit e Port sono stranieri in un mondo culturalmente distante e sembrano disposti a entrare in una velenosa simbiosi con l’ambiente, assorbirne il veleno, l’eros malato.