Il 24 maggio del 1915
Bandiera a mezz’asta
Oggi si celebra il centenario dell'entrata in guerra dell'Italia. Davvero serve festeggiare orrori e errori? Eccessi e finzioni? Forse è meglio riflettere sull'atto di nascita dell'Europa
Si discute se abbia ragione la Presidenza del Consiglio che dispone l’esposizione della bandiera italiana insieme a quella europea, per festeggiare l’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio 1918, o il Presidente della provincia di Bolzano Arno Kompatscher che non avrebbe esposto alcuna bandiera o semmai quella a mezz’asta in segno di lutto. La storiografia ha studiato in lungo e in largo le cause della Grande Guerra, il suo svolgimento e i suoi disastrosi effetti. È noto che verso l’Italia, se fosse rimasta neutrale, l’Austria era disposta a concessioni, non pari alle aspirazioni territoriali italiane, ma significative. È anche noto che l’Italia ruppe l’alleanza con l’Austria e il Reich tedesco per mantenere gli impegni segreti presi con Francia e Regno Unito a Londra poche settimane prima dell’entrata in guerra. È noto che la condotta di guerra fu dura e in molti casi efferata sia da una parte sia dall’altra, nei confronti dei proprio soldati, dei prigionieri, delle popolazioni civili, delle persone sospettate di intesa con il nemico, dei disertori, degli obiettori. È noto che la guerra portò alla rivoluzione russa e alla relativa guerra civile, che la conclusione della guerra, gestita in modo disastroso seguendo il desiderio di revanche di alcuni vincitori, seminò la tempesta che sarebbe poi germinata nel fascismo e nel nazismo. È noto che secondo alcuni storici le due guerre sono un’unica guerra, la guerra civile europea.
La graduatoria di chi porta maggiori colpe o di chi commise maggiori atrocità può essere oggetto di discussione infinita: ma è una dimostrazione di stolidità analoga al sentirsi vittoriosi e quindi celebrare l’entrata in guerra. La realtà della guerra come motore dell’efferatezza, della miseria umana nelle sue peggiori manifestazioni, dell’egoismo di massa e della viltà celata dietro la potenza delle armi, emergerà come unica conclusione dietro i fumi dello sforzo patriottico di addossare al nemico le colpe e i peccati, i vizi e le crudeltà.
È bene svelare, ai giovani patrioti e alle scalpitanti nazionaliste qualora abbiano ancora una testa per ascoltare oltre alla mano per impugnare lo smart phone, piccole storie, che la Storia nasconde, come quella di Alma.
Alma Gaspari Menardi, albergatrice in Cortina, allo scoppio della Grande Guerra, cinquantenne, viene denunciata dalle autorità austriache al tribunale di Innsbruck per simpatie filoitaliane (Cortina era austriaca). Ma all’inizio delle ostilità la rapida avanzata italiana impedisce lo svolgimento del processo. Al comandante dei Carabinieri Alma dice che vi sono due categorie di cittadini, «austriacanti militanti» e «austriacanti innocui» tra cui numera suo marito Luigi Menardi. Il comandante, invece di apprezzare questa sincerità, arresta il marito e lo interna, provocando non solo il dolore ma anche i tentativi di Alma di farlo ristornare. Questo suo attivismo e l’orgoglio ostentato verso le nuove autorità con le sue critiche all’andamento della guerra e all’operato dei comandi militari, provoca il suo arresto. L’occasione è offerta da un suo viaggio a Milano per una visita dentistica. I Carabinieri la fanno spogliare, la perquisiscono e trovano lettere per alcuni internati ampezzani a Firenze, che insieme a cartoline delle montagne consentono di accusarla di spionaggio. Il Commissario civile si oppone con successo, ma i carabinieri trovano un nuovo pretesto quando Alma, di fronte alla censura che tratteneva le sue lettere al marito sbotta: «È una vera vergogna». Il 16 agosto 1916 viene internata a Firenze per motivi politici: «Procurato allarme, depressione delle spirito pubblico».
Secondo il Commissario civile l’allontanamento era dovuto all’ostilità di Alma contro ufficiali che, ospiti del suo albergo, non volevano pagare il dovuto e si comportavano da padroni, minacciandola di internamento.
Alma aveva otto figli e in particolare la sua figlia più piccola era motivo di preoccupazione che rappresentava così alla Commissione di revisione:«Sono italiana di nascita ma sposa ad un redento di Cortina di Ampezzo nel Cadore. I miei sentimenti di alta Italianità sono conosciuti ovunque; sempre lavorai (…) per la causa italiana, tanto è vero che allo scoppio della guerra mondiale fui dagli austriaci imprigionata e processata a causa di ciò. Ora trovomi internata a Firenze (…) per aver io osato criticare il generale Caputo (…) per certi abusi che vengono commessi. Feci male, lo so, ma non trovo giustificato il provvedimento (…) La bimba deperisce di giorno in giorno (…) Vengo a supplicare di rimpatriarmi onde salvare la mia figliola» (Lettera 7 maggio 1917, cit in: M. Ermacora, Le donne internate in Italia durante la Grande Guerra, in D.E.P. 7 2017). Ma la Commissione di revisione per gli internamenti continuò a negarle il rientro nella sua casa e nel suo lavoro.
Non c’è motivo di festeggiare l’entrata in guerra e nemmeno la vittoria della Grande Guerra.
È ora che l’Europa spezzi le catenelle che legano la nostra cultura a visioni ridicole della storia in cui le tribù celebrano i propri eroi: gli italiani il povero fante, i francesi l’eroico poilu, i tedeschi il landser, gli americani il doughboy, gli inglesi il tommy.
Quindi ha ragione Kompatscher: non c’è, oggi 24 maggio 2015, nulla da festeggiare in Europa, se non l’Europa stessa, il suo progetto, la sua forza nonostante le difficoltà, il suo essere nata su quelle ceneri infinite, così vicine che se ne sente ancora il calore nelle parole degli anziani più consapevoli su quelle distese di ossa di cui i più consapevoli sentono ancora il gelo. Viva l’Europa, nata da quelle catastrofi per non doverle più attraversare. Viva l’Europa dei nostri figli Erasmus, di cui inorgoglirsi, senza vittorie da celebrare, ma con impegni da prendere, in primis per la difesa militare comune – unita, decisa ed efficace – del loro futuro.