Roberto Mussapi
Every beat of my heart, la poesia

Resistenza, una forma dell’anima

Nel Cimitero di Cuneo prendono vita i volti dei nomi impressi nei marmi del Mausoleo dedicato ai Partigiani. Caduti per rendere libera la «mia piccola patria… scabrosa, ostile», come recitano i versi emozionanti di Roberto Mussapi. Parole cariche di senso come spiega Yves Bonnefoy

Il Cimitero dei Partigiani nasce, per quanto ne sappia (la nascita della poesia è misteriosa), da un incontro tra un sogno del mattino (i “sogni bianchi” di cui tratta Aristotele), e una precisa realtà storica, un mausoleo, tempio della memoria. Pubblico qui la nota d’autore che ho scritto per accompagnarla in Gita meridiana, il libro in cui la poesia apparve (Mondadori, 1990), e, di seguito, un brevissimo estratto dal saggio di Yves Bonnefoy che introduce la mia opera poetica completa (Le poesie, Ponte alle grazie, 2014). Porgo questa mia opera ai lettori di Succedeoggi in questo giorno di celebrazione di quella forma dell’anima che si chiama, ora e sempre, Resistenza.

***

Nasce da un luogo reale, che è precisamene il Mausoleo dei Partigiani, nel Cimitero di Cuneo. Non so perché, ma l’ho immaginato come un Cimitero a se stante. Solo dopo un po’ di tempo dalla stesura mi sono accorto che, modificando l’ubicazione reale, lo isolavo dal contesto, collocandolo in una posizione solitaria. Chissà, forse anche la terra che rende uguali ha allontanato lievemente i Partigiani, in un argine di arcangelica distanza. I nomi, i nomi di battaglia (caratteristica di ogni partigiano), le professioni e le date sono letteralmente ripresi dalle epigrafi sulle nove facciate. Ho sostato a lungo davanti a quei nomi e a quelle fotografie un po’ stinte, e se non fosse per le leggi della poesia, leggi che comprendono una componente di arbitrio, li avrei trascritti tutti. Solo l’ultimo, colui che esce dalla facciata dei partigiani ignoti, ha nome e soprannome immaginari.
R.M.
(Da Gita meridiana, nda).

 ***

Morti, in Mussapi? No, diciamo piuttosto dei vivi che incontrano la propria morte. Questo è vero nel caso di Plinio. Come nel caso di un’altra delle grandi poesie di Mussapi, Il Cimitero dei Partigiani. Questo “cimitero” è in realtà un mausoleo, quello che commemora a Coni, così si dice Cuneo in Piemonte, gli uomini, spesso molto giovani, che fin nei paesi più lontani delle montagne circostanti combatterono nelle fila della Resistenza al fascismo, e caddero oscuramente. Ma nella dimensione del suo poema Mussapi ha voluto che questo monumento divenisse un cimitero, e benché dica in una nota di non conoscere il motivo della scelta, la cosa mi sembra piuttosto chiara. Sui muri di un mausoleo si trovano solo riferimenti a luoghi “altri”, in un cimitero, invece, i morti sono ben presenti, sono appena sotto i nostri piedi in quella terra. Ora, leggendo i nomi dei “caduti” Mussapi fa esattamente rivivere delle presenze, come sa fare il ricordo con i nomi che pronunciamo. E a questi morti è necessario lo spazio tra le tombe, che conduce fino a quelle tombe le strade e i campi di quella terra dove sono caduti per rendere libera la «mia piccola patria», dice Mussapi, «scabrosa, ostile». (…) Sono versi emozionanti, e più ancora, per questa stessa emozione, sono parole cariche di senso; e mi soffermerò su tale ricchezza del senso: uno dei grandi, nuovi inizi della verità poetica che dobbiamo all’opera di Roberto Mussapi. (…)Uno degli aspetti notevoli del Cimitero dei Partigiani, ma senza che quest’ambizione appaia smisurata, è dato dal fatto che Mussapi lascia intendere che pensa a Dante, e scrive sotto il suo segno. Ad esempio interpella i morti, e ne è interpellato, come avviene nella Divina Commedia.
Yves Bonnefoy
(Dal saggio introduttivo a Le poesie).

 

 

Partigiani

Il Cimitero dei Partigiani

A poco a poco la greve aurata luce si condensò
sull’emisfero e sulla parte frontale del viso,
tra il centro della memoria e la parete della mente
dove nascono le domande con sfrigolare di pietra.
E gli alberi si piegarono, gli alberi del viale,
congiunsero le fronde e coprirono la volta,
e io tra il denso abbraccio cercai le stelle,
e mi persi tra i tronchi ormai compatti,
indissolubile tunnel di pietra,
ma prima di poter muovere sillaba
di paura e di preghiera io caddi
sotto la volta terrosa, io fui sepolto
nel sonno che era stato cielo,
e io portai nel fondo la lucente
memoria delle stelle amate da bambino,
in quella terra, in quel viale,
in quello specchio non mio della mia mente.

E sentii il torrente Gesso alle spalle,
ed ero in discesa, riconobbi
il paesaggio amato, le case degli amici,
a destra, indietro, quella di mio padre e di mia madre.

E allora pregai di essere morto,
come chi teme sognando di sognare
e che morte siano le future
persone riaffioranti,
oltre la soglia sacra del ricordo,
la pietra gelata dove può battere il sole.
E la vita, il tabernacolo
della memoria e degli affetti
ancora io spinsi col pensiero nella baluginante
veglia dove a frammenti appaiono,
nella luce del giorno.

E venne verso di me Beppe Fenoglio, sulla strada
che scendeva lenta e morbida verso il cimitero
della mia piccola, ostile, scabrosa patria.
Dal viale degli Angeli, dagli alti,
curvi, gli ombrosi ippocastani, dal santuario
io venni con lui e vidi la prima facciata del sepolcro.
Nomi, fotografie chiuse nell’ovale, date,
Fulvio Arlaud, 1922-1944, Rag., Dott. H.C.,
Giuseppe Ballauri, commerciante, Giuseppe,
1882-1945, più uomo, ormai, con baffi spessi,
nome e nome dato da altri nomi
io col solo nome del mio passo mortale,
col solo mio nome che guardava quei nomi.
Carlo Aimo, Aimo, Sergente Maggiore,
1916-1948, aveva i baffi, gli occhi neri,
Giovanni Barberis, falegname, Giovanni,
1895-1945, Abbà Giovanni, elettricista,
Giovanni, 1924-1944, il viso di un bambino
nella pallida foto, poi vidi
Carlo Barbero, Carlin, meccanico,
Medaglia d’oro al valor militare, 1920-1945,
Michele Brignone, Brich, studente,
Croce di guerra al V.M., 1925-1945,
Graziano Bruno, contadino, 1915-1945,
Giuseppe Beraudo, Giuseppe, contadino,
Millenovecentododici millenovecentoquarantaquattro.
Poi vidi uno bello come un divo americano,
coi capelli all’indietro e gli occhi vivi, Massimino Caron, Massimino,
studente, Dott. H.C.,
Medaglia d’argento al V.M., 1919-1943.
E nella luce addolorata i nomi
altamente in ascesa dal marmo ghiaccio
salirono sopra la terra urinata dai cani,
nell’azzurro rinato di quel cielo tremante
bianchi nella divisa da sciatori alpini
sorsero accanto a me, come fratelli,
Renato Dardanelli, Lucia, operaio,
cittadino francese, 1925-1945,
Teresio Dolce, Adolfo, barbiere,
Cavallera Alberto, Tom Pelissié,
Renato Giraudo, Regi, elettrotecnico,
Andrea Micheletti, Tarzan,
più giovani, molto più giovani
del mio ricordo breve, della sera appena finita.
Voltai, facciata dopo facciata e nell’ascesa
alata e nello sputo al cielo dei vent’anni
ridevano Roberto Riva, meccanico, Sandokan,
Aldo Scialla, Cipollino,
Andrea Vaschetta, Andrea, idraulico,
Mario Vaschetta, Mario, elettricista,
il fratello quasi trentenne ed il ragazzo,
poi la nona parete muta
segnava il riposo di sette ignoti.

Qui, vivo tra i vivi nel desiderio
uno staccò l’oblio e mi venne incontro.
«Ascoltami, fermati un istante, perché vedo
che hai fretta, io sono Pellegrino
Battista, Colibrì, vedi che ti arrivo alle spalle,»
e rideva sotto gli occhi neri e il ciuffo, «mia madre
abita a San Defendente, è ancora tra voi,
dille che mi hai visto, che sono
come l’ultima volta che mi vide,
morii il giorno dopo, in un’imboscata.
Cadendo sentii l’erba nella bocca, ho sofferto.
Dille che la seguo, che le sono accanto,
che nulla del suo pianto è andato perduto,
perché nessuna lacrima è sprecata nella vostra valle.»
E fece per prendermi la mano, ma io mi scansai,
per paura del vuoto abbraccio.
Sorrise, risero gli altri, uno fece una pernacchia.
«Battista, Colibrì, pensi che io debba
davvero farlo, pensi che mi crederanno?»
«Non vergognarti dei sogni e nemmeno
di questo viaggio tra sogno e veglia,
starà alle tue parole essere creduto,
conquìstati il rispetto con la tua lingua»
mi tacitò Fenoglio.
«Sono tutti molto più giovani di me
che ho appena trentacinque anni…»
«Ce ne sono di più vecchi, molti,
hai sillabato le date di nascita e di morte.
Sei vivo, Roberto, vedi solo ciò che ti dà scandalo.»

Oh alati, oh benedetti uccelli, corvi,
neri nell’argine radente, tordi a stormi
accanto allo stesso argine, e biancheggianti
gabbiani nell’aria che si profuma di Liguria,
oh esseri definiti che segnano il confine
come riportarono il cielo al noto azzurro delle valli,
distrussero l’aura gelatinosa e semidensa di quel passo!
E scomparvero le loro forme, rividi
volti nel bianco marmo, come negli occhi
di un passante percepisci il lago dell’anima.
Anima, o il marmo che la circonda e rigenera.

«Dove sono adesso, in quale luogo
concreto io posso ritrovarli, se non è solo
per un’astratta eternità ma per me,
per me e per tutti i viventi che zoppicano
al mio fianco che essi morirono?»
«Sono qui, nella valle scavata sotto questa valle,
la buca che genera il senso, in cui tutte
le altre morti si ricongiungono.
Non ci fu differenza tra la morte
dei fratelli Vaschetta o quella di Filippo,
il tuo vicino di pianerottolo, stroncato
dall’incrocio, dalla moto, dal coma
a diciott’anni. Nessuna differenza.
Solo che Filippo, e Bocca, che morì
per un cancro osseo a ventinove anni
riposano nel senso di chi la morte la scelse.»
«Le morti dopo, le morti accadute per caso,
non hanno senso, solo perché si svolsero poveramente?»
«Il senso di cui parliamo
è sempre per chi resta.
Il senso più alto, quello che coincide con la vita,
è estraneo alle parole presenti,
e al dolore da cui si riversano.
È l’ascesa verso la luce dello stelo d’erba,
il tuffo nelle bolle del delfino, il dolore
è in te che guardi dalla riva salata,
non in colui che lievemente s’abissa.»
«Non ho mai pensato che quelle morti fossero senza senso.
Sapevo solo che mi era inaccessibile.»
«Questa falsa modestia è il segreto della tua superbia,
ma anche della tua forza. La tua
briciola d’intelligenza dell’eterno.
Coltivala, come un fiore, lascia
che sia la tua natura a risplendere.»
«Non l’ordine …»
«L’ordine prenderà forma come un bambino alla luce,
la linfa, il segreto della tua pietà più segreta.
Lasciali ai loro brevi sepolcri accarezzati dal vento.
Ricordali, come si ricorda una primula sull’orlo di un fosso.
Il resto lo scoprirai nell’esecuzione
del tuo compito. La sfera della biro
scaverà il solco di questo cimitero,
penetrerà nel cuore di tutti i morti.
Lì passerà la luce tra i vivi e i sepolti,
lì, in quella traccia ostinata, si guarderanno.»
Poi, verso l’alto emisfero levando la vista
bruciata la terra dal respiro dei morti
il mondo sopra di me rigenerò il cielo
alato e la vorticante vita degli uccelli,
e bersagliata da grida la sua vasta luce
premette sulle mie palpebre, e ancora
vidi, verso occidente, la Langa ondosa,
e Mango e Neive e tutti i paesi delle battaglie,
e prima Bra, dove dormiva Arpino,
con le ali chiuse da arcangelo.
E passammo alla luce mattutina mentre io udii
ancora l’estrema voce sua «Apri
gli occhi. I corvi volano, verso le Prealpi,
salgono lentamente dall’argine, è mattino,
tua madre passa nel corridoio come una fata,
è il tuo risveglio.
Una mattina come allora. Le lenzuola
bianche, l’ampia finestra.
Impara a scrivere come s’impara
a ricordare. Diventa uomo.
Non pensare a noi come si pensa ai morti
ma come soltanto pensano in sala parto
i nuovi nati al loro breve passato.
Portalo anche tu, salendo le altrui scale,
tra casello e casello dell’autostrada,
quando questo cammino non ti parrà che un sogno
un breve percorso dell’età nel confine fatale,
nel lembo che il sonno sbianca nell’aria del mattino.
Tu hai visto, quello che ti parrà illusione
sotto l’alto saluto ascendente e alato,
tra l’argine di primule e lo splendore del sole.»
Roberto Mussapi 

 

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