A un passo dallo Stato Islamico
Sul fronte di Mghilla
Il nostro inviato è andato nel Kasserine, a Jebel Mghilla, in Tunisia, ai piedi della montagna dove i terroristi dello Stato Islamico preparano gli attacchi nel Maghreb. Ecco che cosa ha visto
Non è la Sierra Maestra. Jebel Mghilla potrebbe ricordare il rifugio preferito dai guerriglieri cubani, l’ultimo di Fidel Castro alla macchia, dopo il fallito attacco alla Mocada. Ma non siamo a Cuba, ci troviamo in Tunisia. I barbudos ci sono, ma promuovono un jihad senza pietá contro stranieri e murtaddin, i musulmani “deviati”. Ogni analogia si spegne, ogni suggestione legata alla storia dell’altro secolo scompare. Ogni accostamento appare inappropriato. Rimane il fascino per un posto ricco di suggestioni e di persone in carne ed ossa.
Ci troviamo nel governatorato di Kasserine, famigerato per lo stillicidio di attacchi alle forze di sicurezza tunisine sullo Chaambi. Un’altra montagna venata di sangue. Siamo in viaggio da oltre tre ore in auto con Elin Sorsdahl, reporter di TV2, canale norvegese, il suo cameramen e il mio stringer. Siamo diretti nel villaggio di Ibrahim Ezzaher, dove vive la famiglia di uno dei due assalitori del museo del Bardo nella capitale, dove a metá marzo ci furono oltre venti vittime. Tra loro quattro italiani. Jabeur Kachnaui viveva qui, aveva 19 anni e dopo solo un paio di mesi di addestramento nei campi di Ansar al Sharia Libia (associata locale dello Stato Islamico), vicino Derna, era rientrato in patria per compiere il suo folle gesto. Tanto da guadagnarsi un articolo sull’ultimo numero di Dabiq, la rivista di Stato Islamico, con una inquietante copertina che riproduce la grande moschea di Kairouan. «Soldiers of Terror» il titolo che celebra la strage del museo del Bardo. Quindi nessun dubbio sulla matrice.
Siamo a ridosso degli eventi e il clima è teso. Sul retro della casa colonica poggiata su di un leggero altopiano, appena prima del villaggio, una fila di persone, immobile. Sembra disegnata in chiaro-scuro sul muro basso, appena intonacato. Chi in piedi, chi seduto per celebrare un doppio lutto: la scomparsa di un proprio caro e la cancellazione della sua memoria.
Il fratello anziano del terrorista, Murad, studente di filosofia invano gli parlava di Kant e Spinoza. «Kafhr!», infedele!, si sentiva rispondere da Jabeur, perché i filosofi sono figli del diavolo.
Il villaggio è fatto di poche case, un piccolo emporio, una masjid (moschea) lungo la strada, con accanto un piccolo cimitero. La gente di qua non vuole che il giovane jihadista venga seppellito lì. Un’altra pena per Murad che ha saputo del fratello mentre partecipava alla marcia contro il terrore a Tunisi. Scherzi del destino. Gli abitanti del villaggio hanno voglia di parlare. Anche Mohamed che ha la passione per il giornalismo e fa qualche corrispondenza per Radio Chaambi FM. Sono in molti a riferire della presenza di gente armata su Jebel Mghilla, poco distante dal centro abitato, verso Ain Zayen. E sono piuttosto precisi nelle descrizioni. Sono in cinque a scendere di notte per chiedere acqua e cibo: due algerini e tre tunisini, non di quelle parti peró, ci tengono a precisare. Tenuta mimetica e Kalashnikov in spalla.
Raccomandano di tenere la bocca chiusa. Ma qua la gente non li teme – ancora – perché tutti hanno paura di perdere quel poco che hanno, se si dovesse scatenare la guerriglia contro le istituzioni del nuovo governo di Tunisi. Sono una pattuglia di un distaccamento del battaglione Ukhba ibn Nafi di Al Qaida nel Maghreb (Aqim), di recente affiliato a Stato Islamico. Lo stesso che poche settimane dopo, in aprile, entrerá in contatto con unità delle forze di sicurezza tunisine, causando la morte di quattro militari e il ferimento di un’altra decina. Il ministero della Difesa parlerà di un’imboscata compiuta da una trentina di jihadisti armati. La stampa tunisina riporterá la versione ufficiale, senza troppi particolari. In realtà si è trattato, molto probabilmente, di una operazione di rastrellamento del Mghilla, conclusasi con esiti incerti. Una ulteriore dimostrazione che, al di là della grande generosità con cui i militari tunisini mettono a rischio la propria vita, servirebbero altri numeri e un addestramento al combattimento che li metta sullo stesso piano degli jihadisti. Oltre all’utilizzo di tecnologie sofisticate. Vengono in mente i reparti “cacciatori” dei carabinieri (Scec) utilizzati in Aspromonte, un ambiente simile allo Chaambi o al Mghilla. Oppure alle “batterie” del 185mo battaglione acquisizione obiettivi della Folgore, con le loro tecniche di penetrazione in territorio ostile. Tanto per citare solo alcune delle specializzazioni che farebbero comodo alle forze armate tunisine. Oltre all’utilizzo di droni tipo Predator, ma forse si sta già operando in questo senso.
È certo che senza un drastico cambio di passo anche operazioni come quella di Gafsa che ha visto neutralizzati i vertici di Aqim (Al Qaida nel Maghreb), serviranno a ben poco: occorre un effettivo controllo del territorio. Come la strage del Bardo ha reso purtroppo palese. Ma 27mila uomini dell’Esercito e 15mila della Guardia nazionale, di cui non pochi concentrati nella grande caserma a ridosso dell’aeroporto di Chartage, possono fare ben poco. Si parla di controllare un paese di 167mila chilometri quadrati, piú della metà dell’Italia.
Inoltre, la Gn svolge compiti di polizia su tutto il territorio nelle aree non urbane. Non solo, ma a questi numeri andrebbe sottratto il personale destinato a compiti di governo, logistica e aministrazione. Tra il personale operativo il numero va decurtato di coloro i quali non hanno un sufficente quoziente “combat ready”. A voler essere magnanimi piu della metá non avrebbe tale requisito. Tra quelli “addestrati” pochi rimarrebero nel computo. Anche quelli inviati in Arizona avrebbero ricevuto un addestramento più teorico che pratico. Rimangono i reparti speciali come le Bat (Brigate antiterrorismo della polizia, con compiti swat e tattici) o le Bir (Brigade intervention rapide della Gn) ma non fanno massa critica. C’è anche la Unect, nuovissima unità investigativa antiterrorismo che dovrebbe essere la mente e l’intelligence delle Bat.
A oggi, in molti casi ciò che ha funzionato a meraviglia è stato il passaparola tra la gente. La naturale propensione araba per farsi i fatti altrui, direbbero i detrattori. La volontà di proteggere la propria comunità, che si tratti del quartiere o del condominio, direbbero altri. Facce nuove attirano attenzione e chiacchere. Tempo mezza giornata e la notizia arriva alle orecchie giuste. Alcune operazioni antiterrorismo sono nate cosí. Diventa quindi fondamentale, aspettando che si formino i Csi e gli MI5 tunisini (non sarà un appuntamento per le attuali generazioni), che il governo mantenga un forte livello di legittimità. Serve che “sembri” nuovo oltre a tentare di esserlo. Con uno stile di governo alla Jokowi, il giovane e outsider presidente indonesiano. In Tunisia piú che altrove la guerra al terrorismo si puó vincere solo con l’appoggio forte e incondizionato dei cittadini. Sul piano “militare” la capacitá dell’attuale struttura di sicurezza di reggere azioni contemporanee, combinate e multiple in zone urbane e rurali, è assai limitata. Nonostante i militari tunisini abbiano dimostrato di sapersi sacrificare oltre ogni misura per adempiere al loro dovere. Diventa ancora piú importante non rendere vano il sangue fin qui versato.
E anche la difesa della capitale presenta molte incognite, sorvolando sul fatto che l’attacco di marzo sia avvenuto in una zona che avrebbe dovuto essere tra le piú sorvegliate, vista la vicinanza della sede del Parlamento. L’asse che va da Manouba, passa per Etthadamen, Ariana, Soukra e Raoued potrebbe generare dei problemi, vista la potenziale presenza di simpatizzanti di Stato Islamico. E diventare base per attacchi anche solo dimostrativi a una infinitá di obiettivi facilmente raggiungibili da quelle posizioni. Non vogliamo classificare questi quartieri col marchio “a rischio”, si tratta di zone che complessivamente arrivano al milione di abitanti. E bastano poche centinaia di fanatici per innescare la violenza.
Per facilitare la comprensione del problema, facciamo un esempio: la cittá di Roma, fino a qualche tempo fa, contava su di un dispositivo di difesa territoriale di 15mila uomini. Vari test e simulazioni ne hanno stabilito l’insufficienza. Parliamo di cittá compatibili, almeno per abitanti, 2,7 milioni per Roma e 2,3 per Tunisi, come area metropolitana.
Abbiamo contattato esperti del settore sicurezza/anti-terrorismo che ci hanno confermato quanto l’addestramento sia il fattore chiave, specie per combattere le cellule jihadiste. Venti istruttori possono formare quattro compagnie (da 100/120 uomini) in 11 mesi di training intensivo. Che è quanto sta avvenendo in Giordania con le formazioni anti-Stato Islamico. La Tunisia partecipa già a programmi ATA (antiterrorismo del Dipartimento di stato Usa) e JCET (Join combined exchange training for special operations). Evidentemente serve insistere. Tanto. Diamo dunque per scontato che il governo tunisino sia già all’opera anche su questo fronte. Anche perché il tam-tam sui siti jihadisti darebbe come prossima una campagna shuhud, di attentati suicidi. Gli obiettivi? Italiani, giornalisti e murtaddin (apostati).
Le foto sono di Pierre Chiartano