Lettera da Anzio e Nettuno
Al soldato postumo
I cimiteri militari dello sbarco di Anzio, con la loro gelida razionalità di croci e memorie tradite, ormai sono il miglior monumento all'inutilità e alla follia della guerra
Non avevo mai visitato un cimitero militare prima di effettuare quella ricognizione di memorie e di luoghi dello Sbarco alleato sulla costa anziate. Ne visitai ben tre uno appresso all’altro: quello tedesco a Pomezia, quello britannico sulla Nettunense presso Lavinio, quello americano a Nettuno. In tutto cinquantamila caduti, poco più poco meno. Ma non è tanto la quantità, pur rilevantissima, di soldati sepolti che impressiona in questi luoghi e che li rende così diversi dai cimiteri civili. È piuttosto l’atmosfera di quiete quasi irreale che vi regna; l’età giovanissima dei caduti (la maggior parte sui vent’anni); l’assenza o quasi di omaggi floreali; la rigida, geometrica disposizione delle lapidi sul terreno. Il cimitero germanico di Pomezia fra i tre era senz’altro quello in cui questi elementi risultavano maggiormente enfatizzati.
Ci si accedeva dalla Pontina (una delle strade più trafficate d’Italia), poco oltre Pomezia, dinanzi ai capannoni dell’ALCAN ALLUMINIO SPA, alla Fabbrica Artigiana Salotti, a un cavalcavia di ferro. Appena varcata l’ampia cancellata nera dell’ingresso, ci si trovava precipitati di colpo in un’atmosfera bucolica quasi fiabesca. Il caos insostenibile della strada, il dissesto urbanistico di palazzoni, casette, capannoni industriali, appezzamenti sgombri pronti per qualche speculazione, tutto si dissolveva miracolosamente. Restava soltanto il rumore di fondo del traffico, che tuttavia s’attutiva via via che si saliva lungo il sentierino ghiaioso interno, costeggiato da un uliveto scosceso, dalla villetta del custode, e sull’altro fianco da una lunga distesa di prati all’inglese verdissimi, appena rasati. L’ingresso vero e proprio era in cima alla collina, preceduto da una grande croce di ferro incassata fra alte siepi perfettamente ritagliate. Si entrava in una bassa e stretta galleria di travertino. Una nicchia nella pietra custodiva cinque voluminosi registri contenenti tutti i nomi dei 27.423 caduti germanici sepolti qui (la maggior parte dei quali morti nei quattro mesi della “testa di ponte”, gli altri un po’ ovunque nell’Italia centrale e meridionale durante l’avanzata alleata). Subito dopo la guerra, i caduti tedeschi dello sbarco di Anzio furono sotterrati nel cimitero di guerra americano di Nettuno, poi gli stessi americani fecero richiesta al governo italiano affinché provvedesse a traslare quelle salme altrove. Fu così che venne costruito a Pomezia questo cimitero interamente tedesco. Morale: un nemico, anche da morto, resta un nemico. E non vedo paradigma più efficace per sintetizzare la feroce assurdità della guerra.
Prima di entrare nell’ampio spazio erboso punteggiato di lapidi che si apriva oltre la galleria dell’ingresso, diedi un’occhiata ai registri dei visitatori: non molti a giudicare dalla scansione delle date affiancate alle firme. Poco più in là c’era un obolo delle offerte, un tavolo dove erano disseminati opuscoli del Volksbund (Servizio per le Onoranze ai caduti germanici), perlopiù in lingua tedesca, in cui erano elencati e fotografati alcuni degli altri numerosi cimiteri germanici (circa 600) sparsi in tutta Europa con tanto di tariffe e agevolazioni e modelli di contocorrente prestampati per ciascun viaggio di gruppo. Facevano un grande effetto, sfogliando questi cataloghi illustrati, le immagini dei prigionieri tedeschi incappucciati, coperti di neve, che avanzano in fila nelle steppe russe dopo la disfatta di Stalingrado. Sono immagini note, viste e riviste nei libri di storia, ma in questo luogo sembravano acquistare un significato tutto particolare.
Si legge nella monumentale e bellissima Storia del Terzo Reich di William L. Shirer (Einaudi): «…91.000 soldati tedeschi, ivi compresi ventiquattro generali, affamati, intirizziti, dei quali molti feriti, tutti inebetiti e affranti, procedevano incespicando fra le neve e il freddo, stringendo sulle teste le coperte incrostate di sangue per proteggersi contro una temperatura di 24 gradi sotto zero, alla volta dei tristi, gelidi campi di prigionieri di guerra della Siberia. A parte circa 20.000 romeni e 29.000 feriti evacuati per via aerea, era tutto ciò che rimaneva di un esercito vittorioso che due mesi prima aveva contato 285.000 uomini. Il resto era stato massacrato. E dei 91.000 tedeschi che in quel giorno d’inverno iniziarono la triste marcia verso la prigionia, solo 5000 avrebbero rivisto la patria». Qui non stiamo a Stalingrado, qui le perdite tedesche non furono così ingenti, sebbene superarono le 20.000 unità. Ma il campo di battaglia non fu meno tragico. Dopo i quattro mesi della guerra, si legge ne Lo sbarco ad Anzio e Nettuno di Paolo Senise, «Le cittadine di Anzio e Nettuno erano praticamente ridotte a uno strato di macerie e di polvere… Se tutta l’Italia fosse stata ridotta in polvere alla maniera di Anzio e Nettuno, la ricostruzione sarebbe stata molto più difficile».
Ed eccomi di fronte alla vasta e deserta spianata verde del camposanto solcata nel mezzo da un lungo e diritto sentiero lastricato che spartisce in due sezioni gemelle le fitte schiere di croci di porfido rosso e grigio, contrassegnate a gruppi di cinque da cippi con lettere identificative. Si contano sulla punta delle dita le lapidi decorate con fiori. I rumori del traffico della Pontina sono ridotti ormai a un sibilo ovattato, lontanissimo. Tale è la geometrica disposizione delle lapidi sul terreno, che avanzando lungo il sentiero verso il bianco monumento ai caduti sullo sfondo sembra quasi di attraversare un reggimento inquadrato. Raggiungo il monumento: da un unico blocco di pietra emergono i profili incerti di due soldati con l’elmetto e due donne che fanno loro scivolare le mani pietose lungo i fianchi. Non c’è altro, a parte una fila di cipressi che nasconde parzialmente una rete di recinzione oltre la quale s’intravedono vigne rinsecchite, campi sterrati, tetri prefabbricati grigi e rosa che annunciano i primi insediamenti cittadini di Pomezia.
Uscendo feci quattro chiacchiere con il custode. Mi disse che qui era tutto proprietà dei tedeschi, che al posto dell’uliveto prima c’era una stalla. «Ma mandava puzza. Allora i tedeschi l’hanno comprata e poi abbattuta». Lui se la passava bene nella sua bella villetta in mezzo al verde e, a giudicare dalla fretta con cui cercava di liquidarmi, aveva una gran voglia di chiudere tutto e di tornarci dentro.
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Il cimitero militare britannico sulla Nettunense ha un aspetto più familiare, forse perché più piccolo (2312 caduti, di cui 288 ignoti), forse perché ingentilito da graziosi vialetti pergolati di glicine che spezzavano la rigida simmetria delle lapidi. La scritta incisa sul grande sepolcro di marmo in faccia all’ingresso – THEIR NAME LIVETH FOR EVERMORE – continuava a risuonarmi nella testa mentre procedevo lungo la strada verso Anzio e Nettuno, attraversando quella che cinquant’anni fa era tutta zona di operazioni militari. La testa di sbarco comprendeva infatti un tratto di costa che andava da Torre Astura (vicino a Nettuno) a Torre San Lorenzo presso Lavinio, penetrando nelle campagne dell’interno per circa otto chilometri. Una “enclave” piuttosto limitata, che racchiudeva circa 8.000 civili e 60.000 soldati alleati. Era necessario un notevole sforzo di immaginazione per sovrapporre al paesaggio di oggi – un coacervo insensato di fabbrichette, campi incolti e coltivati, aziende agricole, centri residenziali, piccoli abitati sorti spontaneamente lungo la strada – quello di allora.
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Dopodiché andai a visitare il Museo dello Sbarco, allestito ad Anzio in una sala delle seicentesca villa Adele. Molte fotografie di queste zone durante i mesi di permanenza degli alleati tappezzavano le pareti e i pannelli dell’esposizione. Le campagne si presentavano allora come una ininterrotta distesa di campi solcati dalle buche dei proiettili e dei rifugi scavati dai soldati. Altre foto mostravano postazioni civetta con carri finti in una paesaggio brullo dove ardono le ceneri di qualche bombardamento. E poi immagini della contraerea notturna in azione in un cielo di pece solcato da lampi incrociati… Il museo, inaugurato in occasione del 50° anniversario dello Sbarco (22 gennaio 1994), non è che custodisse granché, a parte le fotografie: nelle vetrine e nelle bacheche erano esposte rare uniformi, qualche arma, e poi decorazioni, documenti, piani di battaglia, foto di veterani, oggetti d’uso quotidiano. I reperti più interessanti provenivano direttamente dal mare di Anzio dove giacciono a varie profondità aerei, navi da battaglia e da carico, mezzi da sbarco, minisommergibili, spesso con tutto l’equipaggio, come i cacciatorpediniere britannici JANUS e SPARTAN e la nave ospedale statunitense ST. DAVID. Agghiaccianti alcune immagini della propaganda nazi‑fascista: per esempio quella di un operaio sullo sfondo di ciminiere che eruttano fumo a tutto spiano e sotto la didascalia: «Operai, in Germania vi troverete bene, come mi ci sono trovato io!». Un’altra locandina raffigurava un uomo legato a una sedia che viene fucilato alle spalle, e in calce il monito sinistro: «Ad ogni traditore, ad ogni sabotatore!». E ancora: un soldato nazista sorridente che allunga dinanzi a sé una mano amichevole: «La Germania è veramente vostra amica!». Mentre uno stereo portatile poggiato su una panca di legno diffondeva le note di motivetti dell’epoca (Rosamunda, Caminito, Tango della gelosia), mi sono soffermo su altre foto che mostravano le imponenti imbarcazioni della flotta inglese ancorate al porto di Anzio sullo sfondo di rovine e di macerie.
Tuttavia, quei quattro mesi di guerra non portarono soltanto morte e distruzione. Si legge nell’accorata e precisa rievocazione fatta da Paolo Senise nel già citato Lo sbarco ad Anzio e Nettuno (Mursia): «Nel territorio, gli americani avevano portato ogni genere di viveri e manufatti, i più inimmaginabili per i contadini poveri e per di più in una zona di guerra. (…) Ad una popolazione affamata non pareva vero di poter disporre di tanto ben di Dio. (…) La popolazione era passata (…) da uno stato che era già di estrema indigenza contadina, resa più difficile dalla guerra, (…) a un tenore di vita certamente superiore a quello di molte città americane a quel tempo. (…) Per le esigenze di guerra si stringeva la cinta a New York, a Boston, a Detroit, a Miami, mentre, paradossalmente, si scialava tra la popolazione di Anzio e di Nettuno». Inoltre, gli americani riuscirono a debellare definitivamente la malaria (la bonifica dell’agro pontino aveva lasciato diverse sacche paludose dove prosperava ancora il morbo), distribuendo alla popolazione l’Atebrin, un medicinale che si rivelò assai più efficace del “chinino di Stato”. L’avvento degli Alleati aveva indotto nella popolazione, oltre alla tensione e al terrore della guerra, anche una sorta di euforica esaltazione. Poiché si viveva nell’abbondanza e la terra era ridotta a un ininterrotto campo di battaglia e anche volendo era impossibile qualunque attività agricola, si era diffusa l’oscura convinzione fra i contadini che la fine della guerra avrebbe coinciso con il definitivo affrancamento dal lavoro e dalla fatica del vivere: gli americani vincitori avrebbero continuato a provvedere a tutto, con la stessa munificenza e generosità che stavano dimostrando in quei giorni.
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Uscito dal museo, raggiungo il lungomare della riviera di Ponente dove si trova la statua bronzea di Angelita, una bimbetta stilizzata che libera dei gabbiani in volo e che è diventata il simbolo dello Sbarco alleato. Un militare del corpo del “Reali fucilieri di Scozia”, S.C. Hayes, sbarcato con le truppe angloamericane, trovò la bimba che piangeva sola e disperata sulla spiaggia. Immediatamente la affidò alla Croce Rossa. Ma pochi giorni dopo, durante uno dei pesanti bombardamenti da parte della artiglieria tedesca, Angelita morì insieme alla nurse della Croce Rossa che l’aveva presa in cura. Ricerche fatte sul momento non riuscirono a darle un’identità.
Volto le spalle alla statua verso il mare agitato: onde spumeggianti si frangevano contro i massi e il frangiflutti di cemento trenta metri oltre la riva. L’ampio arenile era deserto, spazzato dal vento che sollevava alti mulinelli di sabbia. Un tizio faceva jogging lungo la battigia con uno stormo di cornacchie che gli volteggiava sopra la testa. Sulla destra, s’intravedevano i maestosi ruderi della Villa di Nerone e dell’antico porto romano.
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Il cimitero militare americano di Nettuno era costituito da un enorme, bellissimo parco (31 ettari di terreno), con tanto di laghetto artificiale dove sguazzavano paperelle e giocavano bambini, vialetti di ghiaia, panchine eleganti di legno, ampi spazi erbosi ed alberati, l’immensa spianata verde delle oltre 20.000 lapidi infitte nel terreno (fra cui parecchie stelle ebraiche) e in fondo un enorme, enfatico complesso monumentale in onore ai caduti a forma di tempio romano, delimitato da due alti pennoni in cima ai quali sventolavano le bandiere americane. A differenza di quello tedesco e britannico, questo cimitero – dove sono tornato oggi in una fredda giornata prepasquale – era frequentatissimo. Già all’ingresso avevo notato numerosi pullman turistici nella piazzola del parcheggio (non solo americani). L’interno era pieno di visitatori che passeggiavano lungo i viali alberati, si facevano fotografare sorridenti fra le lapidi, giocavano sui prati con i bambini come in un comune parco pubblico. Anch’io venni contagiato dall’atmosfera che mi circondava, e mi sedetti su una panchina al sole a leggere il giornale mentre mio figlio che allora aveva 4 anni correva beato fra le croci. Dicevo che ci sono tornato oggi in una giornata livida e fredda, e ho indugiato a lungo davanti al laghetto e al cenotafio di travertino in onore ai caduti; nella vasta spianata del cimitero, oggi deserta, piena di croci in marmo bianco perfettamente inquadrate, vialetti ghiaiosi, siepi, pini marittimi, alberi di mirto, cipressi; nel Sacrario che comprende la cappella dove sulle pareti sono incisi i nomi degli oltre 3000 dispersi, la sala delle carte topografiche e, al centro, un peristilio sempre in travertino romano con la scultura bronzea dei “Fratelli d’Armi” sopra un alto piedistallo di marmo, due giovani a torso nudo che avanzano intrepidi guardando l’orizzonte e tenendosi abbracciati. Oggi, davanti al monumentale ingresso del Cimitero, ci hanno piazzato un McDonald’s con due vasti parcheggi che, assieme alle strutture temporanee di un Circo sistemate in uno spiazzo adiacente, mal si addice all’augusto monumento denominato Sicily-Rome American Cemetery and Memorial.
Mi restava da visitare ancora il Bosco di Foglino, a 5 chilometri da Nettuno, dove cominciò lo Sbarco Alleato il 22 gennaio 1944 e dove era stato deposto da poco un cippo ricordo in pietra baltica con una targa bronzea commemorativa, ch’era stato oggetto di aspre polemiche fra il Comune di Anzio e quello di Nettuno. Entrambi rivendicavano la paternità dello Sbarco e volevano il cippo a casa loro. Raggiunsi il bosco e la località di Foglino (quattro casette e una pizzeria), ma del cippo neppure l’ombra. Voltai verso il mare, costeggiando una vasta zona militare cinta da filo spinato. Di lontano, oltre un vasto, bellissimo, incontaminato paesaggio collinare (le zone militari da queste parti rappresentano ormai l’ultimo baluardo alle seconde case), s’intravedevano gli imponenti bastioni medievali della Torre Astura. Mi fermai presso un chioschetto di bibite e panini e chiesi lumi al proprietario. Dapprincipio strabuzzò gli occhi, poi, dopo aver confabulato a lungo con la moglie e con alcuni avventori del luogo, qualcosa sembrò ricordare: «Provi alla pizzeria “Foglino”… Quel cippo, come lo chiama lei, devono averlo messo lì!». Tornai indietro, raggiunsi la famosa pizzeria, ch’era una specie di casolare chiuso, sbarrato all’imbocco del bosco. Scesi dalla macchina, mi guardai attorno e non vidi altro che alcune caprette arrampicate su un paio di cassonetti ricolmi di rifiuti.