Fino al 12 marzo al Teatro dell'Opera di Roma
Tosca: repetita iuvant
L'opera di Puccini riproposta nell'allestimento di Adolf Hohenstein che creò scene e costumi per la prima del gennaio 1900. Una scelta sicura e rodata che svela qualcosa della nuova gestione ora affidata a pieno titolo a Carlo Fuortes
Una Tosca nella linea dell’usato sicuro, alla ricerca di sala piena e incasso garantito. È una scelta che rientra nella rotta assunta nel suo incarico commissariale da Carlo Fuortes, ora appena nominato sovrintendente a pieno titolo del Teatro dell’Opera. Una linea che si conferma nella programmazione della stagione estiva, alle Terme di Caracalla, con tre titoli tutti di Puccini (due saranno nuovi allestimenti), più i prevedibili pienoni per le serate Pink Floyd Ballet, Elton John e Roberto Bolle. Vero che tale politica serve a sorreggere le magnifiche sorti e progressive dell’attuale gestione, tutta impegnata a snocciolare incremento di recite, spettatori e sbigliettamento, e a procurarsi consenso. Ma è altrettanto vero che su questa strada, dando spazio a riproposte di allestimenti già pronti e rodati, e sempre ben accolti, ci si avvia verso ritmi produttivi più intensi e più adeguati all’importante impegno finanziario che il Teatro richiede. Le repliche di questa Tosca, infatti, si susseguono ogni sera fino al 12 marzo, con tre diversi cast per i ruoli principali, e tre altre recite a fine giugno, a beneficio dell’alta stagione turistica.
Il recupero di scenografia e costumi di Adolf Hohenstein, che li creò per la storica prima del gennaio 1900, è stato presentato come un avvenimento; per quest’occasione, scenografia ricostruita da Carlo Savi, costumi da Anna Biagiotti, con disegno luci di Vinicio Cheli. In realtà, tale impianto è stato ripreso dal Teatro dell’Opera ben nove volte da metà Novecento, due delle quali nell’ultimo decennio. La verità è che adesso la scenografia è stata interamente ricostruita e ridipinta su tela, secondo le tecniche di un tempo, dai laboratori del Teatro, grazie all’alta professionalità delle maestranze; ma questo è il loro lavoro. Tra l’altro, nel recupero delle scene di Hohenstein si riaffaccia la curiosa licenza poetica dell’ultimo atto: di fronte agli spalti di Castel Sant’Angelo, si espande l’alba alle spalle della Basilica di san Pietro. E quindi il sole si accinge a sorgere da… ovest.
Sul podio c’è una bacchetta autorevole, di lunga e solida esperienza, quale Donato Renzetti. Il quale sceglie un binario di lettura sovente gagliardo, vigoroso, forse in omaggio alla nota passione del pubblico romano per questo melodramma, nel quale esso ritrova luoghi-simbolo come Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese, e la Mole Adriana del tragico epilogo. In effetti, una mano e una concertazione più leggera sarebbero riuscite meglio in alcuni momenti, ad esempio nel Te Deum, che con la sua sovrabbondante sonorità ha prevaricato l’altro importante polo drammaturgico del finale primo, vale a dire l’aria di Scarpia. Ma nell’insieme la direzione di Renzetti tiene bene in pugno l’intera compagine e appare esagerato qualche dissenso conclusivo a fronte di un aperto successo. Piuttosto, condizionata dal recupero della scenografia storica, e quindi da un contesto naturalistico, la regia di Alessandro Talevi è apparsa scontata e povera di idee.
Il cast ha avuto la punta di diamante nel baritono Roberto Frontali, interprete del barone Scarpia. Il raffinato fraseggio, i mezzi vocali, la capacità scenica, l’intelligente musicalità che sono noti in quest’artista gli hanno permesso di esprimere in pieno l’astuzia malvagia, l’insinuante ipocrisia, le perversioni del personaggio, dalla cui resa musicale e teatrale dipende tanta parte della vicenda. Tosca era il soprano ucraino Oksana Dyka, e dei tre protagonisti è apparso il meno convincente; nella sufficienza, ma niente di più. Vissi d’arte ha ricevuto applausi soprattutto di cortesia, per lo stile piuttosto ordinario e per qualche problema d’intonazione. E l’impeto speso da questa cantante la induce più volte a forzare la voce, col risultato di riuscire un po’ pesante e poco espressiva. Cavaradossi era affidato alla voce di Stefano La Colla. Onorevole nell’insieme, la sua prova ha però destato qualche osservazione stilistica, come in Recondita armonia che, sul passaggio E te, beltade ignota, lo ha visto aiutarsi con un portamento, un leggero trascinamento della voce verso l’acuto, che è uno stratagemma di mestiere. E qualche annotazione di gusto si potrebbe sollevare anche nel recitativo a due con Angelotti (William Corrò), o nel suo acuto un po’ schiacciato nel duetto finale con Tosca. Bellissimo, invece, E lucevan le stelle nel terzo atto, sorretto dal clarinetto che ha eseguito elegantemente il proprio “solo”. Qui, davvero, il tenore ha saputo emozionare la sala, che lo ha ripagato con un’ovazione, ben meritata in uno spettacolo che complessivamente riesce più che dignitoso.