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Turisti in Tunisia
Qual è l’approccio di un occidentale con la frontiera del mondo arabo? Ecco la prima parte di un diario di viaggio, a metà tra report turistico e esperienza di vita
La prima istantanea del viaggio in Tunisia sono le palme dell’aeroporto di Tunisi-Cartagine sbatacchiate da un vento gelido, impetuoso, e un cielo terso e nitido che si spande a perdita d’occhio sulle case basse, sui grattacieli, sulle gru che dominano i cantieri. Il sole è accecante ma non riesce a compensare la sensazione di freddo che penetra sotto i piumini. In Italia è Santo Stefano, qui è un venerdì come tanti e lo strappo spazio-temporale si consuma subito, ci isola in un mondo in cui Natale è una parola straniera e, se non fosse per quegli abeti di plastica, tristi e spelacchiati, che troviamo nelle hall degli alberghi, quasi niente ci ricorderebbe che siamo nell’ultima settimana dell’anno.
Gli hotel che ci accolgono per quasi tutto il tour appartengono alla catena El Mouradi e si caratterizzano per essere enormi, stare lontani dal centro, e per lo sfarzo e l’imponenza delle zone comuni (la hall, il ristorante, l’esterno con piscina e piante ornamentali). Le camere, che possono essere anche molto distanti dalla reception, sono spaziose ma non sempre pulitissime, hanno tappezzerie pompose, moquette macchiate e sono prive di sedie; i bagni hanno la vasca (e non il piatto doccia) ma non sempre la tenda; può capitare che l’acqua calda esca tiepida, e magari che abbiano dimenticato gli asciugamani, i bicchieri, i saponi quando hanno rifatto la stanza. Questi alberghi, classificati a quattro e cinque stelle – e queste zone touristique in cui sorgono – anche se frequentati pure da persone del posto, sono una sorta di enclave, isole di sicurezza nelle quali sistemare i turisti occidentali, l’emblema del fittizio che il turismo di massa è riuscito a creare in tanti posti del mondo.
Il primo impatto, il primo calpestio di suolo tunisino dopo l’aeroporto, avviene a Sidi Bou Said, la cittadina dedicata al Piccolo Padre Felice, un religioso musulmano vissuto qui tanti secoli fa e ancora venerato. È un grazioso villaggio a picco sul mare, con strade lastricate, buganvillee e gelsomini che spuntano da dietro i muri, intonaci bianchi, infissi e portoni rigorosamente azzurri. Qui, dove arriva anche la ferrovia costruita dai francesi (siamo a una ventina di chilometri da Tunisi), ci sono ristoranti e bar deliziosi, atelier d’arte, scorci suggestivi da fotografare. È pomeriggio e sta per piovere, non c’è tanta gente in giro e i negozianti hanno un loro aplomb, non cercano di vendere qualcosa a tutti i costi. In un bellissimo bar a terrazze con vista sul mare, dove sono passati anche Gide, Klee, Sartre e Beauvoir, beviamo the alla menta con pinoli. Buono ma un po’ indigesto.
Il giorno dopo il cielo è grigio come grigio e spumoso è il mare che lambisce la spiaggia alle spalle dell’hotel. Ma in meno di un’ora cambia il clima e quando arriviamo all’antico porto di Cartagine (sembra un piccolo grazioso laghetto artificiale ma guardandolo in pianta si capisce la forma a chiocciola che lo rendeva quasi inespugnabile) il cielo si è aperto all’azzurro. Di fronte, un augurale arcobaleno incornicia la collina su cui sorge la chiesa di San Luigi (una basilica ottocentesca costruita dai francesi). Questo stesso sole ci accompagna durante la visita alle esigue rovine dell’antica città punica («non aspettatevi una seconda Pompei», ci aveva avvertito la guida), alle terme di Antonino Pio (per le quali i Romani avevano fatto giungere l’acqua da chilometri di distanza), alle impressionanti tubature dell’antico acquedotto romano. In questi siti non si paga biglietto d’ingresso ma è richiesto un dinaro (circa 50 centesimi) come droit de photographer. E si può fotografare tutto, i mosaici che già conosciamo dai libri di storia, i cani randagi che sembrano i veri padroni del sito, le colonne, i capitelli, le statue dimezzate, i reperti custoditi sotto le teche del museo che testimoniano che grande città fu Cartagine fino a che i Romani non decisero che delenda est.
In questa zona, che la guida assicura essere ad altissimo valore immobiliare, sorgono le residenze dei politici e le ville dei ricchi, protette da muri di cinta dietro i quali s’indovina una curata vegetazione. Ma tra una località e l’altra, dal pullman vediamo strade sterrate, marciapiedi bassi, muri scrostati, pozzanghere che denunciano gli avvallamenti della carreggiata. Ci sono case isolate, incompiute e senza intonaco, bambini che giocano nella polvere, una vegetazione di cespugli, di alberi bassi, di rade palme sfrondate dal vento e un senso pungente di incompiuto, di squallore, di fatiscenza.
La sosta successiva è a La Goulette, pochi chilometri più a sud, sempre sulle sponde occidentali del profondo golfo di Tunisi. Qui, e lo testimonia il quartiere che si chiama Piccola Sicilia, a partire dalla metà dell’Ottocento c’è stata per molti decenni una costante migrazioni di siciliani che, per quasi un secolo, hanno prosperato lasciando tracce nella cultura locale. Passeggiamo sulla lunga spiaggia di sabbia chiara e povera di conchiglie. Le barche tirate in secco mi ricordano quelle procidane e hanno nomi scritti col nostro alfabeto, ma si chiamano Ines, Aziza, Samira. Il golfo è talmente ampio che non si vede a occhio nudo la sponda di fronte né alcuna imbarcazione che solchi l’orizzonte, ma è da qui che partono le navi per Palermo, per Trapani, per Genova, l’Italia è vicina.
Ora facciamo finalmente rotta su Tunisi, attraversando la grande laguna naturale che separa la capitale dal mare sopra una lingua di strada realizzata dai Romani (sempre loro!) che mi evoca l’ingresso a Mestre o a Orbetello. Ma Tunisi è solo un assaggio, più il tempo che restiamo bloccati nel traffico che quello destinato ad ammirare l’immensa, moderna piazza principale su cui s’affacciano un paio di ministeri, il comune, una moschea e altri edifici importanti. Si discute, ci informa la guida, se dedicare questa piazza a Mohamed Bouazizi, l’ambulante che nel dicembre 2010 si diede fuoco per protesta nella città di Sidi Bouzid, nel centro del paese, accendendo la scintilla della cosiddetta “primavera araba”. È chiaramente un luogo di rappresentanza ma i ragazzini non si fanno scrupolo di giocare a pallone e di arrampicarsi sull’obelisco posto al centro dell’enorme spazio. Poco distante da qui inizia la casbah, ma è sabato, molti negozi sono chiusi, facciamo un giro nella zona degli orefici e una breve sosta in un negozio di profumi. Tunisi è la città dei fiori e dai fiori gli artigiani traggono le essenze per preparare le fragranze, sia quelle originali che quelle a imitazione dei grandi marchi, che vendono ai turisti come noi. Quella che compro è estratta dal fiore di cactus ma porta il nome di Chanel n°5, la pago l’equivalente di dieci euro, al duty free di Fiumicino ce ne volevano cento, basta accontentarsi. Ma a parte questi profumi, la casbah che percorriamo è silente, asettica e senza folla; solo un venditore ambulante di collanine con la mano di Fatima s’incolla al gruppo e ci segue fiducioso e testardo, impermeabile ai nostri dinieghi prima cortesi poi sempre più insofferenti.
Lasciamo la grande città – qui vivono due degli undici milioni di abitanti di tutto il paese – di nuovo affrontando il traffico, i semafori, il brulichio confuso di persone, biciclette, motorini. Donne col capo velato, le ciabatte e le buste della spesa, uomini incorniciati per l’eternità sotto le tettoie dei bar, ragazzi che guardano curiosi verso il pullman, e sorridono levando una mano in segno di saluto. Lasciamo la grande città consapevoli di averla solo sfiorata, inseguiti da questa lingua piena di aspirazioni, da queste bandiere che sventolano dappertutto, dalla voce registrata del muezzin che chiama alla preghiera.
È tutta autostrada fino a Sousse, terza città del paese per popolazione, due ore di percorso nell’ora in cui il cielo è più intenso, due ore di un tramonto lunghissimo che tinge il cielo di rosa, di giallo e poi d’azzurro cupo. Una luce che si posa prima su una propaggine della catena dell’Atlante e poi su una sterminata pianura solcata da sparuti greggi di pecore, da alberi radi, qualche palma, cespugli e pali altissimi su cui fanno il nido le cicogne.
Ma a Sousse non c’è tempo per vedere la Grande Moschea, la Medina e neppure la Casbah. Vediamo solo la vicinissima Port el Kantaoui, e la sensazione è quella di trovarci in una delle nostre località di mare, la Riviera adriatica o quella dei Cedri, Cervia o Scalea, una giostra accogliente di attrazioni, musica, ristoranti e negozi di souvenir globalizzati. Ci ricordiamo di essere in Tunisia quando arriviamo in hotel, un altro El Mouradi in zona turistica (cioè periferica), enorme e strapieno di famiglie tunisine con figli. La cena a buffet si risolve in file interminabili, ressa, corse e pianti di bambini su cui si posa lo sguardo sconfitto del maitre di sala che, con un lembo di camicia fuori dai pantaloni e la fronte imperlata di sudore, rimane immobile, arreso, accanto ai tavoli di servizio, sui quali non ci sono più piatti puliti, posate e bicchieri per apparecchiare per il turn over degli ospiti.
Non meno ammuinata è la situazione del bar. Ci sono donne anche a capo scoperto e con mise provocanti, uomini che parlano e ridono ad alta voce, tre musicisti grassi che suonano e cantano seduti e una spessa cappa di fumo ad ammorbare l’aria. Ci ricordiamo di quando in Italia si fumava nei locali pubblici, sembra un secolo fa e invece…
Così prendiamo i nostri bicchierini di Thibarine, un’ottima grappa di datteri, e ci accomodiamo all’esterno, a bordo piscina, sotto silenziose, benevole stelle. Fa niente il freddo.
1. Continua