Lidia Lombardi
La rinascita dell'Opera di Roma

La rivoluzione di Werther

Grande successo per il Werther di Massenet splendidamente messo in scena da Willy Decker al Costanzi. Una sobria e simbolica rappresentazione di tutte le incertezze che pesano sulla testa di un uomo in trasformazione

Quanto una regia intelligente e al tempo stesso misurata possa giovare alla lirica lo dimostra il Werther di Jules Massenet in scena al Teatro dell’Opera di Roma (repliche 25, 27 e 29 gennaio). Plauso dunque al tedesco (di Colonia) Willy Decker che nel rinato Costanzi (sì, rinato con messinscene pregevoli dopo il braccio di ferro Fuortes-sindacati) ha importato una produzione dell’opera tratta da I dolori del giovane Werther di Goethe che debuttò ad Amsterdam nel 1997 ed è stata poi ripresa in molti blasonati palcoscenici europei.

Di questa tragedia, caposaldo della letteratura romantica europea, Decker ha dato una lettura non soltanto convincente ma anche funzionale, oggi come mai, alle produzioni liriche. Una scena significativa eppure semplice, costumi giusti però senza sfarzo, atmosfere create da luci e colori invece che da orpelli scenografici e complicati cambi di scena. Insomma, un toccasana per gli enti lirici, specie i nostri, costretti di continuo a rintuzzare deficit e malumori politici.

Dal punto di vista artistico, poi, gli input forniti all’opera sono numerosi. Per esempio, lo scivolamento dell’azione dalla fine del Settecento (allorché Goethe scrisse la vicenda del giovane letterato che si strugge fino al suicidio per l’amore impossibile con la dolce Charlotte) alla fine dell’Ottocento, quando Massenet mise in musica il romanzo epistolare. La scelta non sovverte troppo lo spirito della vicenda. Perché se il Werther goethiano soffre non solo per amore ma per un malessere derivato dai mutamenti epocali a ridosso della Rivoluzione francese (e borghese), quello di Massenet (che ebbe ben tre librettisti) sconta l’insoddisfazione di una società che sente il fiato della rivoluzione industriale. In entrambi i punti di vista, comunque, il dibattuto e infelice protagonista è un emarginato dal conformismo sociale. Da una morale rigida, luterana in Goethe. Da un perbenismo ostentato in Massenet.

E infatti che cosa muove i rifiuti di Charlotte alle dichiarazioni adoranti di Werther? Il fatto che sia già stata promessa a un altro, quando lui la conosce in un assolato luglio germanico. E il fatto, oltretutto, che quella liaison gliela abbia confezionata la madre, morta anzitempo e comunque ossessivamente presente nella quotidianità di Charlotte, che ha assunto il ruolo materno nei confronti dei fratellini, in una gestione ordinata e senza scosse della casa del borgomastro suo padre. Senonché l’asettico mondo di certezze di “Lotte” (così in Goethe, Charlotte alla francese in Massenet) si sfalda piano piano di fronte all’ardore del sentimentalissimo traduttore di Ossian. E non valgono né il matrimonio contratto con il severo Albert, né l’infatuazione che la sorella adolescente Sophie matura nei confronti di Werther, né i pettegolezzi dei concittadini a frenare i dubbi che le crescono in petto. Lei tiene duro, zittisce il cuore finché può. Invoca Dio, perfino porge all’innamorato l’arma che egli chiede ad Albert inventandone la necessità prima di affrontare un lungo viaggio. Però quando capisce che l’addio di Werther è esistenzialmente per sempre e corre a cercarlo, trovandolo agonizzante con un proiettile in corpo, allora cede al sentimento, almeno in un ultimo e unico abbraccio.

Werther Regia Willy Decker1Epilogo annunciato, in un plot poi non così ricco di sorprese, essendo il personaggio di Werther definito nella sua ossessione intellettuale e sentimentale fin dall’inizio, con quell’amore che lo brucia e lo acceca, quanto il suo trasalimento di fronte alla bellezza della Natura, romanticamente percepita come fonte di verità in contrapposizione all’ambiguità degli individui. Ma Decker, la cui regia è stata ripresa al Costanzi da Jean-Louis Cabanet, riempie di pathos sia la trama sia la musica di Massenet, priva di magniloquenza, di duetti, di exploit del coro (salvo quello delle voci bianche che intona un canto natalizio nel primo e nell’ultimo atto) eppure raffinata e capace di un crescendo drammatico nelle scene finali.

E quali sono le armi nell’arco di questo allestimento? Innanzitutto la scena, risolta non nel tradizionale giardino dove Werther incontra per la prima volta Charlotte o negli interni di famiglia. No, la casa, il paese, i prati, i campi innevati sono tutti racchiusi in una sorta di scatola sghimbescia, con parete trasversale che gli attori spingono ad aprire o socchiudere la scena sullo sfondo, un semicerchio appena scosceso che allude all’orizzonte e sin colora di giallo grano dell’estate quando esplode il sentimento di Werther, di blu notte quando l’angoscia comincia a prendere piede, di bianco neve quando incombe la morte del protagonista. Altri segnali spingono fin dall’inizio verso la tragedia: la pistola che Werther impugna sempre e che passa di mano in mano, fino ai compari del borgomastro, qui trasformati in aguzzi osservatori degli eventi in cappello e palandrana nera; il ritratto della madre defunta, prima ben piazzato nella camera di Charlotte, poi assente quando la giovane comincia a traballare nei suoi convincimenti, infine esibito come un trofeo cogente dalla famiglia e dalla comunità che si riprende “Lotte” di fronte al cadavere di Werther. Werther l’escluso, come paradigmaticamente sottolinea il banchetto che unisce tutto il paese in una lunga tavolata, senza che ci sia posto per lui.

Alla sapienza registica si sono uniti la valentia del direttore d’orchestra, Jesus Lopez-Cobos (capace di tirare fuori dalla partitura tutte le sfumature, anche le più tenui), e degli interpreti: tra cui il cristallino e insieme accorato protagonista di Francesco Meli, la combattuta Charlotte di Veronica Simeoni, l’algido Albert di Jean-Luc Ballestra. La replica dello scorso 21 gennaio è stata trasmessa in diretta dalla Rai Radio Tre e il pubblico ha potuto godere da casa dell’esecuzione. Bene sarebbe che in futuro anche la tv rimandi gli spettacoli dell’Opera di Roma, così come fa per esempio per quelli all’Arena di Verona. Potrebbe accadere per i titoli in cartellone nella stagione estiva a Caracalla, nel segno di Puccini. Un’attenzione che l’ente lirico capitolino si merita.

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