A proposito di romanzi gialli
Inseguendo Vargas
Il caso e l'intuizione contro la ragione: è la filosofia del commissario Jean Baptiste Adamsberg, l'anti-eroe di Fred Vargas. Un monumento alla dittatura del destino
Il genere “investigativo”, se così posso chiamarlo, ha conosciuto negli ultimi dieci anni una crescita esponenziale di offerta e di domanda. Su quest’onda – io che avevo tanto amato in gioventù Scerbanenco – in anni molto recenti ho vinto il mio naturale snobismo per gialli, noir e omicidi da decifrare e mi sono avvicinata, traendone disordinato e vario piacere, a Jean Claude Izzo, Camilleri, Alicia Gimenez Bartlett. Con questi fior di artigiani mi ero dovuta ricredere, era un genere piacevole, che mi teneva compagnia con intelligenza e leggerezza.
Ma un paio d’anni fa, l’apparizione di Fred Vargas nella mia vita (sempre sia benedetto il passaparola tra amici-lettori), ha dato una spallata alle suddette convinzioni. Dopo essermi cimentata con grande e inquieta fatica con Nei boschi eterni, ho comprato e letto uno dopo l’altro tutti i libri della Vargas aventi come protagonista il commissario Jean Baptiste Adamsberg. Una volta finiti – sono otto o nove, ma comunque finiscono – ho cercato di placare il desiderio rivolgendomi all’altro filone di investigatori partorito dalla grande autrice francese, quello dei quattro evangelisti. Straordinario anche questo.
Il commissario Adamsberg è uno dei personaggi più belli nei quali mi sia capitato d’incappare. È un uomo che irrita e al tempo stesso intenerisce, una persona che indaga (e vive) in barba alla razionalità e affidandosi al suo intuito, alla sua lentezza, alla sua – a tratti esasperante – immaginazione. L’autrice lo definisce a un certo punto uno «spalatore di nuvole» e con quest’etichetta addosso (oltre che con un vestiario trasandato ai limiti dell’impresentabile) Adamsberg vagabonda per le vie di Parigi, siede sulle panchine, segue il filo incomprensibile, agli altri, dei suoi pensieri. Mentre gli uomini e le donne della sua squadra (e pure qui c’è un campionario di varia, affascinante umanità) si impegnano e litigano nel quotidiano lavoro di attività investigativa, il commissario si fa guidare dai suoi sogni, agisce di pancia, pedina le evocazioni tratte da un oggetto o una frase che gli hanno alitato affianco. E all’improvviso vede il colpevole.
Altrettanto originali sono i personaggi seriali che ritornano nei romanzi dei cosiddetti quattro evangelisti: Marc, Lucien, Matthias e Vandoosler il Vecchio, che vivono tutti insieme in una casa a più piani, meglio nota come la topaia.
Sono ora fresca della rilettura di Io sono il tenebroso che racconta di come il Tedesco, un ex funzionario ministeriale necessitato dalla sua stessa natura a indagare, riesca con l’aiuto di questi quattro strani personaggi, a scoprire il colpevole di una serie di omicidi scagionando – ciò che è più importante – l’indagato principale.
La narrazione scorre fluida e punteggiata da dialoghi strepitosi, che è una caratteristica di tutti i libri della Vargas. Il lettore viene accompagnato per alcune vie di Parigi con la stessa delicatezza con cui viene introdotto nei meccanismi mentali dei protagonisti, nelle loro manie e nei loro originali e appassionati interessi.
Ma il vero capolavoro, secondo me, è la figura del sospetto Clement Vauquer (ritardato o solo poco intelligente? omicida seriale o povero disgraziato?), protetto senza tentennamenti da una ex prostituta: questo personaggio, come lo stesso Adamsberg, intenerisce e irrita.
Sembra la corte dei miracoli, a dirla così, e invece tutti i protagonisti declinano un aspetto dell’umanità: solitudine e ricerca, tenacia e ironia, cultura e curiosità, provocazione, ingordigia, abnegazione, generosità, noia in cui ritrovarsi. Tutti i protagonisti, al finale, conquistano il lettore.
Perché in questo sta la grandezza della Vargas (pseudonimo di Frédérique Audouin-Rouzeau, ricercatrice di archeozoologia ed esperta di medievistica): ha una scrittura colta ma che non annoia, non mette lo sgambetto, non esagera con rimandi e citazioni; e sa inventare personaggi che non ti scrolli più di dosso. E poi è una maestra dei dialoghi, in cui regala momenti di vero godimento. In Io sono il tenebroso, per esempio, quando il “Tedesco” interroga Vauquer per valutarne l’innocenza c’è un linguaggio strampalato, curioso e divertente che sarebbe perfetto anche per un adattamento teatrale.
Chapeau, dicono i francesi. Il Nobel, propongo io.