Parla il fondatore del quintetto Architorti
Ironia in musica
Incontro con Marco Robino, il musicista che da tempo lavora con Peter Greenaway: «Certe volte, al cinema, la musica precede il film. E ne diventa quasi un contrappunto»
Marco Robino è il leader e compositore del progetto musicale Architorti, un progetto al quale collaborano oltre quaranta musicisti. Ho avuto il piacere e il privilegio di conoscere Marco Robino quando Greenaway è venuto a Roma per presentare Goltzius and the Pelican Company. Dico piacere e privilegio perché Marco Robino è una persona deliziosa, piacevolmente scevra di antipatiche sovrastrutture, che parla e dialoga di musica con genuina passione e una generosità che è davvero di pochi. In questo devo dire mi ricorda molto Greenaway con il quale collabora ormai da tempo.
Qualche giorno fa ci siamo sentiti e abbiamo chiacchierato un po’. Abbiamo parlato della sua collaborazione con il celebre regista gallese, ma anche di musica e di immagini. Ed è stata un’esperienza che ho apprezzato moltissimo. Lo stesso vale per il processo di trascrizione della nostra conversazione in quanto mi ha spinto a cercare nozioni, scoprire e riscoprire aspetti della musica e specifici pezzi che ho sempre amato. Ho anche riscoperto, ma con un entusiasmo tutto nuovo e incredibilmente intenso, alcune vecchie riflessioni che nella loro nuova veste mi hanno non solo convinto di quanto debba essere incredibilmente interessante e appassionante essere parte dell’universo creativo e artistico del binomio artistico Greenaway-Robino, ma soprattutto del perché io stessa abbia compiuto determinate scelte lungo il mio percorso esistenziale rispetto ad altre. Insomma, questa chiacchierata mi ha ricordato quanto sia semplicemente preziosa e importante quella porzione di infinito che risiede in ognuno di noi e che chiamiamo con il nome di creatività.
Come hai incontrato Greenaway?
L’incontro è stato casuale. Un mio amico, Claudio Ottavi, mi ha messo in contatto con il set di Tulse Luper, (il secondo capitolo) nel periodo in cui stavano girando la scena della festa in costume presso il castello di Racconigi. Greenaway aveva bisogno di un quartetto allora io ho proposto il mio quintetto Architorti. Dovevano fare delle trascrizioni di Purcell ma io ho proposto una mia trascrizione di un minuetto di Handel che è piaciuta molto. L’ha voluta sul set e anche per il resto del film. È anche presente nelle scene finali del terzo capitolo. Greenaway si è affezionato a questo pezzo e lo ha usato anche per il corto La Doccia Europea, del 2005.
La musica è importantissima per la cinematografia di Greenaway…
Sì, molto importante e, sì, non posso nascondere che per un musicista sia un’opportunità importantissima.
Allora rivolgiamoci ai laici e se ti va cerchiamo di entrare nei meccanismi della tua collaborazione con Greenaway. Cosa succede a livello creativo e a livello tecnico quando si lavora con lui?
Allora, intanto diciamo che ci sono principalmente due modi per fare musica per le immagini, per i film, per il cinema, per i documentari, per la televisione. Una di queste modalità vede il regista lavorare a stretto contatto con il compositore, creatore, l’assemblatore di musiche. Insieme costruiscono la musica in base a un tempo, a un ritmo che viene dettato dalla sceneggiatura e poi dal montaggio. Quindi in certe situazioni la musica viene composta durante o addirittura dopo il girato. È molto difficile lavorare in questo modo. È una musica che viene cucita addosso al film, alle immagini, e ricorda un po’ Williams o Hermann, grandissimi compositori di colonne sonore che danno un’idea, danno un incipit. Prendiamo Lo squalo come esempio. In quel caso l’idea nasce dalla sceneggiatura, poi l’adattamento viene fatto anche in base al montaggio.
Poi c’è un’altra strada. Questa prevede la ricerca di materiale già esistente che si possa sposare con l’idea del film, con la sceneggiatura. Questo metodo è più simile a quello impiegato da Greenaway. Con Greenaway non si costruisce la musica dopo o durante il film, la musica esiste a priori in base alle sue esigenze, o a quelle della sceneggiatura alla quale sta lavorando. È un processo che si innesca già dai nostri primi incontri, fino al Ripopolare la Reggia (2007). C’è l’idea di fare una musica e poi di seguire l’evolversi della sceneggiatura, della storia e dal 2008 in realtà si scrive in campo aperto. Cioè, si instaura una collaborazione che va al di là del semplice progetto e delle sue finalità. Nel 2008 inizia a parlarmi di Goltzius e mi invoglia a scrivere musica secondo un certo sistema che abbiamo un po’ elaborato insieme. Lui si lega al minimalismo, ai minimalisti, cita sempre i suoi preferiti con cui ha lavorato e che ha amato tantissimo, primo tra tutti Nyman, poi c’è Glass e Reich. Greenaway però cerca di costruire delle frasi un po’ più lunghe rispetto a quelle della classica micro cellula minimalista e che all’occorrenza si possono accorciare. Nella musica ci sono delle frasi che fanno la melodia, come succede con le frasi composte da parole. Prendiamo la frase sono andato al supermercato e ho comprato il pane. Queste due semifrasi che insieme fanno una frase completa al centro hanno una virgola, così la musica ha la sua frase musicale. Ogni melodia è formata da due semifrasi, la seconda semifrase può salire o scendere. Nel minimalismo ci sono due frasi estremamente corte, cellule che vengono ripetute continuamente e ripetute poco per volta fino creano un racconto operando anche delle piccole modifiche e non rivoluzioni, modulazioni o inserendo strutture tipiche della musica classica.
Greenaway è una persona dotata di infinita ironia. Quando ci siamo conosciuti mi hai raccontato di come questa sua ironia non solo si ritrova nel suo cinema ma anche nelle musiche dei suoi film…
Assolutamente sì. Anzi io penso che la mia fortuna sia stata proprio quella di trovare un artista confacente al mio lavoro e questo grazie a due fattori. Inizialmente è il sistema di lavoro molto legato alle macchine, alla capacità di poter usare le macchine per produrre. L’altra cosa che mi è congeniale è che lui cerca l’ironia musicale. Parlava continuamente di ironic music e effettivamente quando parla dei suoi compositori preferiti con cui ha lavorato e che ama, emerge sempre Nyman.
Quando si parla di musica, ironia e Greenaway a me viene sempre in mente quel pezzo di Nyman, Chasing Sheep is Best Left to Shepherds che si ritrova ne I giardini di Compton House…
I pezzi di Compton House sono tutti tratti da Henry Purcell. (Robino canticchia il pezzo) Quello che citi tu è tratto da una sinfonia breve, molto veloce, perché è tutta lì, sempre di Purcell, è l’oratorio King Arthur. È praticamente uguale, perché lui cosa fa? La trasforma in modo ironico. Altri compositori non ce l’hanno questa caratteristica. Non parliamo degli italiani poi, sì bravi, tutta gente stimatissima, ma tutti seri, tutti compiaciuti, tutti sulla tonalità minore, tutti fighi, tutti, tutti dei grandi fighi e io mi sono detto: lui vuole delle musiche ironiche? E allora prendiamoci per il culo! Benissimo! E menomale che lui la cerca questa ironia! Per esempio, ho fatto delle trascrizioni per quintetti di Rossini, un’edizione pocket del Barbiere, per quintetto d’archi e voci, ed è una cosa bellissima. Veramente contro la depressione, una musica che smuove le budella dentro, che ti fa il solletico. Tutte le volte che senti queste terzine (le canticchia) si crea un bel contrasto sui Drughi. Ci vuole quello. Ci vuole anche quello. E lui ha visto che se si tratta di fare musica tragica o seria, va bene anche quello. Ad esempio, in quella di Ripopolare la Reggia, (la canticchia) c’è un gioco che riproduce i movimenti di un meccanismo che gira e poi si ferma. Oppure la danza della morte fatta l’anno scorso a Basilea (la canticchia) con il controfagotto che va sui 4/4 in contrapposizione a questo teschio che sta facendo una danza ironica. Proprio ironic music.
Tornando all’argomento ironia e musica e alla rielaborazione di pezzi già esistenti, ci sono generi che si prestano di più rispetto ad altri?
Greenaway è un autore barocco, ridondante nelle immagini, è anche barocco musicalmente. Gli piace la musica del 600 e del 700 e poi passa subito al 900. Quella è la musica che predilige. Non è un autore romantico, non lo vedo trattare argomenti legati al romanticismo tedesco e alla letteratura tedesca. È senza dubbio un uomo di grande cultura ma ama altre cose, e la musica di quel periodo lì si adatta molto a essere minimalizzata, si adatta molto alla sua cinematografia. Noi possiamo ispirarci a Handel e a Purcell. Ultimamente, per l’ultimo progetto, abbiamo fatto delle prove per Eisenstein utilizzando Prokofiev, ma non è andata tanto bene. Certe cose gli piacevano ma andavano contro lo stile del film e giustamente anche la produzione ha le sue esigenze. Eisenstein deve essere Prokofiev, ma fare la rielaborazione di un autore del 700 è un conto e lavorare su uno ancora tutelato un altro. È tutto ancora in essere.
Restando sull’argomento dell’ironia, dai generi passiamo agli strumenti…
Musica acustica che sia eseguita veramente. Non c’è spazio per l’elettronica. Abbiamo iniziato con gli archi inserendo una voce e adesso abbiamo completato un’orchestrazione abbastanza ampia anche se non completa. Non è ancora la classica orchestra neoclassica, ma è pur sempre un’orchestra ben nutrita. Questo lavoro recente che ho fatto su Eisenstein prevedeva fiati, clarinetto, fagotto, controfagotto e anche delle chitarre. Le chitarre erano collegate al Messico. E poi abbiamo anche degli strumenti che ci siamo inventati noi, come quello che noi chiamiamo l’ipobasso. È un contrabbasso preparato, per il quale abbiamo fatto fare delle corde apposite. È un contrabbasso accordato sotto il contrabbasso normale, quindi arriva proprio al limite dell’udibile e da un sound che è solo nostro. Purtroppo nel cinema lo standard del Dolby Surround è uno standard che taglia le frequenze da 30 in giù e quindi ci taglia delle frequenze che noi potremmo e vorremmo usare. È una fregatura ma così è lo standard. Ed è un peccato perché sarebbe un confine nuovo, tagliare dai 20 hertz in su, noi abbiamo molti bassi che possiamo stendere bene e che nel cinema non sempre si possono usare per via degli standard. E, questa cosa, ci fa girare un po’ le balle…
Quando hai fondato il quintetto cosa avevi in mente? C’era una sorta di manifesto?
La storia della formazione del quintetto è una cosa buffissima. Avevo finito una collaborazione con la RAI, una coproduzione di parecchi anni come socio di un’orchestra. Finita la coproduzione, mi sono guardato un po’ in giro, ho lavorato sempre come violoncellista con altre orchestre. A Pinerolo eravamo cinque strumentisti e ci siamo detti, boh, suoniamo insieme, intanto facciamo qualcosa. Dopo un mese che si suonava insieme mi sono reso conto che dovevo lavorare e avevo poco tempo da dedicare al piacere del suonare insieme, quindi non c’è nessun manifesto. La svolta è arrivata con le trascrizioni. Per il quintetto d’archi non c’è nessun repertorio, c’è una cosa di Dvorjak, ci sono altri brani isolati, ma non è il quartetto d’archi o il trio con pianoforte che sono le formazioni principi della musica da camera e quindi bisogna trascrivere. Se vuoi suonare per questa formazione devi riarrangiare, trascrivere e io non lo avevo mai fatto. Ci ho provato e ho visto che mi veniva bene. Ed è una malattia, una cosa che mi ha preso tantissimo. Ci passavo le serate, spinto dal puro piacere di farlo senza prospettive economiche o commerciali. Solo per il desiderio di creare un repertorio. Il resto è venuto dopo. Le trascrizioni sono rielaborazioni, si studia anche l’autore, come scrivono certi rispetto ad altri. E poi si ha il piacere di scrivere tutto a mano. Ho avuto la fortuna di incontrare Greenaway, al quale piacevano le mie trascrizioni, ma che ha anche scoperto la mia vena barocca, perché a me piace la musica antica. Io nasco come flautista, flauto dolce, che ho studiato seriamente con un vero maestro di musica antica. Mentre i miei compagni sentivano la disco-music io ascoltavo la musica antica. Poi ho iniziato il conservatorio dove ho scoperto il Romanticismo. Però non c’è niente da fare. Se tu ricevi un imprinting prima di una certa età, fra gli otto, nove e i quindici anni ti rimane tutta la vita. A un certo punto i bassi continui ti vengono naturali e lui l’ha capito maledettamente. Dopo mia moglie, che è la prima persona più vicina a me in questo progetto e che rischia con me in prima persona, c’è lui che è stato un grandissimo per aver capito questa cosa di me. Io non avevo nemmeno la presunzione di scrivere, invece lui ha detto scrivi, scrivi per orchestra, per grande orchestra, io sono famoso, tu scrivi! È anche un azzardo suo! Io sono un perfetto sconosciuto. In un’intervista spiegava quanto fosse difficile lavorare con i musicisti. Lui chiede ore di musica e può essere un problema. I produttori cercano di fare agganci con grossi nomi perché i grossi nomi rendono più vendibili i progetti, ma è difficile lavorare con lui. Per Goltzius mi ricordo quando a Venezia mi disse che aveva oltre quattro ore di materiale e io non sapevo neanche di avergli dato tutta quella musica. Ciononostante quando è uscito il film ce ne ha messa dell’altra come fosse un invito a scrivere altro materiale. Adesso per il suo progetto su Morte a Venezia (è dal 2010 che ci sta lavorando) stiamo procedendo come con Goltzius anche se dice che ha musica a sufficienza. Solo che è a me che non basta! A me piace tirare fuori altra roba, l’ultima è stata una marcia funebre, in quella non c’è niente di ironico però…
Ma è fantastico. Io credo fermamente che la buona arte chiami a sé altra buona arte, che abbia la capacità di dare a un processo creativo continuità e organicità…
Concorderai allora che un’altra cosa importante è quella di fare tanto, magari di scrivere anche cose che non verranno mai usate. È un aspetto importante…
Non solo concordo con il concetto espresso da Robino e che chiude la nostra chiacchierata ma mi sento anche in dovere di espandere questo concetto mettendoci del mio. Questa riflessione prova l’esistenza di un fil rouge che collega i diversi mezzi espressivi, creativi e artistici. E penso fermamente che ribadire quanto possa, per esempio, essere vicino uno scrittore a un compositore o un pittore a un cineasta (le combinazioni sono infinite) ci permetta di ampliare gli orizzonti e di fornire spunti interessanti per una ricerca di nuovi linguaggi e nuove contaminazioni.
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