Giuseppe Giglio
Regali di Natale

Nostri fratelli scrittori

Cesare Pavese, Emilio Salgari, Primo Levi e Franco Lucentini: Demetrio Paolin va in cerca del filo (non solo letterario) che unisce questi autori. Tutti grandi e tutti suicidi

Gli scrittori – e ancor più i narratori – raccontano storie, si sa. Magari raccontano una propria storia, ma la narrano come se fosse la storia degli altri, di tanti. Non succede tutti i giorni, però, di imbattersi in scrittori che raccontano altri scrittori. Propriamente, raccontano: laddove una scrittura saggistica felicemente immaginifica cede alla narrazione, al romanzo. Ed è quel che accade, per esempio, con Non fate troppi pettegolezzi. La mia dipendenza dalla scrittura (LiberAria Editrice), il nuovo libro di Demetrio Paolin, che riprende nel titolo un lacerto testamentario di Cesare Pavese, dallo scrittore langarolo vergato poco prima di lasciare i propri lettori, le proprie storie, la propria stessa vita. Eccolo, quel lacerto: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». È da qui, da queste ultime parole dell’autore dei Dialoghi con Leucò (che proprio sul frontespizio di questa sua opera-chiave si trovano), che parte Paolin. Per raccontare, oltre a Pavese, altri tre scrittori, anch’essi morti suicidi: Emilio Salgari, Primo Levi e Franco Lucentini. Scrittori diversissimi, ma tutti legati a Torino: un luogo che per loro si muta in destino, che diventa punto di chiusura del loro cerchio del vivere.

Non fate troppi pettegolezzi di demetrio paolinDemetrio Paolin li rilegge, li rivisita, gli amati scrittori: in preda a quella preziosa malìa per la quale – per fortuna non raramente – accade che uno scrittore sceglie i propri lettori, e stabilisce con essi un rapporto privilegiato, da uomo a uomo: nel senso che il lettore si sente coinvolto, come in un gioco di intelligenza attiva. E così Paolin prova a dipingere – in poco meno di cento pagine, e come a dar finalmente sbocco a certi suoi insoluti rovelli – quattro originali ritratti: febbrilmente viaggiando dalla letteratura alla vita e viceversa, intrecciando con abilità il tempo dei personaggi narrati con il proprio tempo: in una circolarità borgesiana che diventa esame di coscienza, che si scioglie in avventura morale, e che lascia al lettore una nuova, sorprendente tara. Mentre egli, il lettore, tocca con mano quanto contagiosa e salutare sia quella dipendenza dalla scrittura che incornicia le figure di Salgari e Pavese, di Levi e Lucentini. Che hanno un che di caravaggesco: nel segno di una luce che apre squarci di oscurità, ingenera domande impensate, lascia intravedere imperfezioni e frizioni incisive nella vita come nella scrittura delle anime di questo polittico, dove l’immaginazione di Demetrio Paolin sempre chiede conferma a quelle vite, a quelle scritture; nel segno, ancora, di una luce che distilla – come da un coagulo di suggestioni dissepolte – un quid, un quantum, un’entelechia: in cui, di volta in volta, l’uomo e lo scrittore sembrano chiedere nuova ed urgente e congiunta udienza al lettore di oggi. A chi li ascolta per la prima volta, e a chi ne conosce già la voce.

demetrio-paolinA cominciare da Emilio Salgari, il papà di Sandokan, la tigre della Malesia, che ha deciso di porre fine alla propria avventura con un gesto plateale. Uno scrittore prolifico e popolare, dalla vita tormentata, Salgari, rimasto imprigionato tra un prepotente talento e la sfiancante schiavitù editoriale della scrittura a cottimo: «a lui non era chiesto di leggere il mondo che stava venendo, ma si chiedeva di inventare un mondo per dimenticare ciò che stava per accadere». E l’autore de Il corsaro nero se ne va con parole sferzanti, nei confronti di chi si era arricchito alle sue spalle: «Vi saluto spezzando la penna». E continuando con Cesare Pavese, quello che sulla sua tomba, a Santo Stefano Belbo, ha voluto lasciare questo icastico messaggio: Ho dato poesia agli uomini. Dice così, il poeta romanziere che più di tanti altri ha raccontato, ha mostrato il dolore, quel «sentimento che più di ogni altro ci consegna al nostro essere umani e vivi»: il dolore dell’amore, del sesso, dell’abbracciarsi, dell’assenza, della solitudine. E insieme al dolore, la vergogna: quella che – attraverso un’inquietante (ma di quella inquietudine che arricchisce il gruzzolo del vivere) rivisitazione del mito di Orfeo, che abita le pagine pavesiane –  porta a comprendere che «l’uomo non è altro che nulla nel momento in cui muore, nel momento in cui varca le soglie dell’Ade». Che dire poi di Primo Levi e Franco Lucentini, entrambi protagonisti di una stessa morte (ma sigillo, quella morte, di due percorsi esistenziali e letterari assai diversi: una «mancanza di difesa rispetto ai demoni della memoria», e un «gesto di maturazione, come un frutto maturo che sull’albero cade, così che la gente ne possa gustare il sapore al momento giusto»), entrambi, Levi e Lucentini, ciascuno a modo proprio, ossessionati da un bisogno vitale: ridare esistenza alle cose – al bene ed al male, e specialmente al male – attraverso la parola?

È un libro che fa bene alla critica letteraria e soprattutto ai lettori, Non fate troppi pettegolezzi. Se è vero, come è vero, che Demetrio Paolin – che ai suoi scrittori chiede soprattutto cosa sia l’essere uomini – cerca e trova volti sotto le maschere, e li riporta in superficie, come un minatore di antica esperienza. Tanto più che si tratta di volti che, in fin dei conti, e oggi forse più di ieri, hanno non poco da dirci.

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