Uno spettacolo da Hemingway
Una guerra a parole
La versione teatrale di "Addio alle armi" che il gruppo inglese "imitating the dog" porta in tournée in Italia è una riflessione (amara) sul potere delle parole perse nel vuoto
Un pianto sommesso e angosciante di donna pervade la scena. Ciò che vediamo sembra un ospedale da campo dismesso da tempo: un luogo abbandonato, forse bombardato, vecchio, vuoto. È solo con l’ingresso degli attori, con la stridente modernità del loro abbigliamento, con la spiazzante disinvoltura con cui essi perlustrano quello spazio per piazzarvi due telecamere, che inizia a comporsi la fisionomia di uno spettacolo complesso, intrigante, di forte impatto visivo e, soprattutto, orchestrato su un’idea centrale ben chiara. Addio alle armi secondo la compagnia britannica imitating the dog, tra le realtà più innovative e apprezzate della scena europea (www.imitatingthedog.co.uk), è infatti soprattutto un microcosmo letterario da abitare/occupare con modalità contemporanee: un universo di sentimenti, accadimenti, drammi individuali e collettivi emblematici ieri come oggi.
Il celebre romanzo di Ernest Hemingway, pubblicato nel 1929 e divenuto più volte film, è ambientato sul fronte italiano negli ultimi anni del primo conflitto mondiale (buona parte dell’azione si svolge prima e dopo quella terribile carneficina che fu la disfatta di Caporetto, sulla quale restano memorabili le pagine di Carlo Emilio Gadda) e prende spunto da episodi autobiografici legati all’esperienza che lo scrittore stesso fece della guerra come conducente di ambulanze della Croce Rossa americana. La trama si articola su un doppio binario, la guerra e l’amore, e racconta la tragica vicenda di un giovane statunitense, Frederic Henry, che, arruolatosi volontario perché spinto da un fervente idealismo, durante la sua permanenza in Italia (anche lui guida ambulanze) si innamora di un’infermiera inglese, Catherine Barkley, con la quale, dopo la rocambolesca ritirata degli italiani sul Tagliamento, scapperà in Svizzera da disertore. La donna però gli morirà tra le braccia dopo aver dato alla luce un bambino, nato anch’egli morto.
Si tratta dunque di una storia-simbolo. Di una prismatica parabola umana tesa a mostrare l’atrocità della guerra – di ogni guerra – e la crudezza del destino. Nella loro interessante rilettura, Andrew Quick, Pete Brooks (adattamento del testo e regia) e Simon Wainwright (video e proiezioni) condensano i cinque libri della partitura romanzesca in un lavoro decisamente in bilico tra distacco epico e afflato melodrammatico, dove lo sguardo metaletterario («La nostra storia – si legge nella nota introduttiva – si apre con un gruppo di lettori che, come degli archeologi, irrompono in un edificio in rovina. Una volta, nella prima guerra mondiale, serviva come ospedale») si trasforma giocoforza in uno sguardo metateatrale.
Ecco dunque un set dentro al quale i personaggi del libro prendono vita con tanto di uniformi e pettinature d’epoca mentre, intorno a loro, altri attori fungono da coro moderno incaricato di riprendere in diretta e di proiettare sul fondo quanto accade e quanto viene detto. Ogni battuta, ogni espressione, viene perciò amplificata da una videocamera che sembra voler straniare la vicenda stessa, aggiungendo alla sua riscrittura ante quem una riscrittura in fieri recitata con compassata distanza (molto bravi i protagonisti, Jude Monk McGowan e Laura Atheron), che è poi il segno forte di quella universalità che entrambi, romanzo e spettacolo, veicolano. Non a caso gli attori/tecnici/coro intervengono essi stessi nella drammaturgia entrando e uscendo dalla storia con estrema naturalezza. Non a caso l’intervallo tra la prima e la seconda parte dell’allestimento è un momento di cesura significativo, occupato dagli interpreti che a vista si cambiano d’abito, spostano gli elementi della scenografia, si preparano alla tragedia dell’epilogo. Non a caso, ancora, i momenti più storici e più concreti del romanzo (la battaglia, il ferimento di Frederic, la fuga sul lago Maggiore) inciampano in un descrittivismo difficilmente evitabile che, pur se troppo didascalico, risolve in modo assai diretto la difficoltà di tradurre un romanzo in teatro.
Che è poi essenzialmente la difficoltà di dare alla lingua uno spessore vitale, di abitare – appunto – le parole abitando uno spazio (qui tanto più multimediale e pluriprospettico) con dei corpi. In questo senso credo che la non facile scommessa di imitating the dog e del loro A Farewell to Arms, visto al Vascello di Roma in prima nazionale ma in tournée anche ad Ancona, Terni e Bergamo, sia una scommessa vinta. Anche se ci sono dei momenti in cui si fa fatica a seguire, anche se la seconda parte rinuncia alla freddezza della prima per una maggiore coloritura melò, questo lavoro educa a non dimenticare. E davvero oggi come oggi non è poco.