Anna Camaiti Hostert
Dopo Ferguson, Cleveland e New York

L’America che brucia

Nonostante Obama, il primo presidente nero a guidare il Paese, o forse proprio a causa sua, nella “terra dei liberi” la strada dell'uguaglianza è ancora lunga e piena di insidie. A complicarla anche la malintesa funzione dei media, più attratti dalle polemiche e dai fatti di sangue che dall'interesse per i processi sociali

La proclamazione d’innocenza da parte del Grand Jury del poliziotto bianco Darren Wilson che in agosto uccise il teenager nero Michael Brown è stata la miccia che ha fatto divampare la rivolta violenta a Ferguson in Missouri. Molta gente è scesa in piazza anche in numerose altre città degli Stati Uniti come non si ricordava da anni. Da quando cioè, almeno per chi come me era presente, ci furono i riots del 1992 a Los Angeles seguite al brutale pestaggio del nero Rodney King dopo che fu fermato dalla polizia. Obama martedì a Chicago ha illustrato i suoi provvedimenti governativi a proposito di immigrazione e nell’occasione ha condannato le violenze e le distruzioni di Ferguson seguite al verdetto di assoluzione. «Bruciare edifici, dare fuoco alle macchine, mettere in pericolo le persone non è scusabile», ha affermato il presidente che ha tuttavia aggiunto: «Essere americani non significa che si deve avere un certo look o avere il nome giusto. Se una parte della comunità americana non si sente accettata o non viene trattata in maniera corretta, c’è qualcosa che ci mette tutti a rischio e noi tutti dovremmo esserne preoccupati».

ClevelandMa ormai non bastano più le parole del presidente che è apparso impotente, quasi rassegnato anche sul podio della Casa Bianca quando ha implorato un ritorno alla calma e alla pace sociale e ha affermato che seppure i progressi nel campo razziale sono stati fatti, il cammino è ancora lungo e non c’è futuro se le comunità locali non vengono ascoltate e se non si lavora insieme, bianchi e neri, in direzione di una via d’uscita. Parole che ha ripetuto ormai centro volte ovunque si è trovato e che sulle pagine di questo giornale non manchiamo mai di riportare. Fino alla nausea. Con la consapevolezza amara che la soluzione non avverrà certo a breve scadenza come le uccisioni di neri negli ultimi giorni, non ultima quella del bambino dodicenne a Cleveland e quella del giovane a New York, provano. E certo non giovano le affermazioni dell’ex sindaco Rudolph Giuliani che a uccidere i neri sono prima di tutto i neri, perché questo non fa altro che confermare la presenza di sacche di emarginazione e di violenza che colpiscono la comunità più disagiata degli Stati Uniti.

Sulla base di questa consapevolezza due sono i punti di vista da tenere presenti: il primo è quello del potere, del presidente, che, vale la pena di ricordarlo ancora, è il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti, e il secondo quello della comunità nera. Cosa può fare Obama di fronte al ripetersi di questi fatti che decisamente sono più frequenti durante la sua presidenza che durante quella di altri inquilini della Casa Bianca? Arrivato al potere, forse anche un po’ ingenuamente, aveva sperato di potere almeno rimarginare alcune delle ferite razziali più profonde. Ma così non è stato, perché per quanto fortemente abbia tentato di mostrare i punti di vista e gli obiettivi che tutti gli americani hanno in comune, molti dei suoi oppositori hanno visto riflessa in lui l’immagine di una vendetta sociale e razziale. Scrive Paul Waldman sul Washington Postparlando del presidente: «Non ha importanza quello che ha realizzato, se è riuscito a risollevare l’economia, a far passare la riforma sanitaria, qualcuno creerà comunque una cornice razziale intorno a tutto ciò, nella quale i bianchi si sentiranno sotto assedio». E continua rincarando la dose: «La sua presidenza è stata vissuta come un potente colpo di frusta nei confronti del progresso razziale a partire dalla Corte Suprema e dai tribunali degli Stati che hanno praticamente smantellato l’affirmative action, per arrivare allo svuotamento del Voting Rights Act (votato durante la presidenza Johnson nel 1964, impediva la discriminazione razziale, nda), per finire al succedersi di ogni legislazione repubblicana: una dopo l’altra, hanno infatti varato leggi che rendono sempre più difficile per la gente (soprattutto le minoranze) andare a votare facendo così credere ai conservatori di essere vittime razziali i cui problemi sono colpa del presidente nero che si vendica di loro per il colore della loro pelle».

E ogni volta che Obama ha provato a esprimere solidarietà alle famiglie delle vittime, per lo più nere, è stato accusato di essere partigiano e non obiettivo. Come ha osato? Come si è permesso? Dovrebbe essere imparziale e non solidarizzare con i neri, solamente perché è nero anche lui. Si è sentito spesso ripetere nei talk shows o nei commenti di molti conservatori autorevoli. Ebbene per portare alla reazione di Ferguson, per mettere la città a ferro e fuoco ci sono voluti un insieme di elementi che non nascono da soli e in un solo giorno, ma che sono il frutto di uno stato di cose endemico e incancrenito nel tessuto sociale. A cominciare da un sistema politico strettamente nelle mani dei bianchi, al comportamento della polizia che tende ogni giorno a intimidire e disumanizzare la gente per finire con un sistema giudiziario che rende facile per la polizia uscire indenne da fatti di sangue come quello di Ferguson e di mille altri simili in tutto il paese. Tutto ciò crea uno stato di frustrazione, di paura, di rabbia. Che porta alla violenza. E dunque il presidente cos’altro poteva dire? Certo la guarigione di ferite come queste non viene dalle parole e non può venire dal presidente, piuttosto dalla creazione di un sistema più giusto, dove la polizia tratta i cittadini, tutti i cittadini, con rispetto, dove il potere è distribuito in modo equo e dove gli individui e i loro figli sentono che la loro vita ha un valore. E al momento tutto ciò e molto lontano dall’essere un fatto. Dunque è difficile far prevalere l’ottimismo.

Ferguson 2Dal punto di vista della comunità nera che ogni giorno si vede colpita negli affetti più cari, siano esse le vittime tutte giovanissime della violenza fra neri, soprattutto a causa delle gang, o quelle della polizia, il punto di vista viene esasperato da uno stato di emergenza continuo e dalle condizioni in cui si trovano a vivere. Così recentemente molti neri si sono ribellati alla descrizione di Ferguson come Gaza o l’Iraq, cioè due zone di guerra, non tanto e non solo perché il paragone sembra loro ingiusto, ma soprattutto perché ciò implica che l’uso della forza sia in qualche modo inusuale e straordinario. Per loro non è che gli Stati Uniti sono diventati così, lo sono sempre stati, perciò analizzare gli eventi di Ferguson in una sorta di vacuum storico e sociale separato dalla realtà quotidiana in cui gli afroamericani vivono tutti i giorni è già il risultato una lunga discriminazione che è divenuta strutturale. Ebbene questo è la conseguenza di una politica della vita di ogni giorno oscurata da un eccessivo interesse dei media per eventi e individui piuttosto che per la formazione e il funzionamento dei processi sociali. Gli individui e gli eventi sono, come si dice, più media-friendly; è più facile costruire dei prodotti ben confezionati e poi metterli sul piedistallo dei sex symbol per distruggerli poi in brevissimo tempo. È facile trovare spiegazioni, scuse, capri espiatori, eroi. La vita quotidiana viene semplificata, impoverita e soprattutto oscurata. Prevale un manicheismo di maniera. Le guerre diventano battaglie tra il bene e il male; la povertà il risultato di scarsa capacità individuale; il crimine una questione di responsabilità individuale; il razzismo un pregiudizio personale. Certo gli individui, le loro storie ci servono per capire i problemi strutturali di largo raggio.

Così quando le madri di Ferguson intervistate dalla Bbc spiegano i criteri di prudenza con cui cercano di allevare i loro figli in una società che a ragion veduta considerano razzista, ci fanno capire come la comunità nera in cui alle sole donne è demandata l’educazione dei figli (e qui si dovrebbe aprire un capitolo sul perché molti uomini neri sentono così poco la responsabilità della paternità), sia quotidianamente lasciata sola a doversi occupare dei tanti problemi sociali che deve affrontare: la mancanza di case, di scuole, la discriminazione sul lavoro, il razzismo sottile a cui ogni giorno si è soggetti. E infine l’invisibilità mediatica che viene contraddetta solo quando ci sono fatti di sangue. Allora orde di giornalisti si presentano in forze perché hanno bisogno della notizia. Senza attenzione e senza interesse nei confronti dei processi della vita quotidiana. Che invece dovrebbero guidare le loro parole e i loro articoli.

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