Grande evento al teatro Diego Fabbri
Il mito Henry Cow
A Forlì, per un concerto eccezionale organizzato da “Area sismica”, ha suonato il mitico gruppo degli anni Settanta di “rock intellettuale”. E non è stata solo una goduria per nostalgici
Henry Cow è stata la più bella famiglia musicale – a capotavola sedeva il grande Robert Wyatt – che potesse incontrarsi negli anni Settanta. Una famiglia nomade e sempre pronta ad acquisire nuovi membri e a confrontarsi con altri musicisti. Se ne andava in giro riproducendo sul palco un ambiente illuminato da lampade un po’ demodé; più una grande stanza pronta ad accogliere il pulsare dei suoni che un luogo in cui esibirsi e fare spettacolo.
Poterli risentire domenica scorsa a Forlì al teatro Diego Fabbri è stato un regalo che l’associazione “Area sismica” ha fatto a tutti coloro – ed erano davvero tanti, un pubblico davvero speculare ai musicisti – che hanno raccolto l’invito a sposarsi ancora una volta con i suoni utopici di Alfred Harth, Anne Marie Roelofs, Chris Cutler, Dagmar Krause, Fred Frith, John Greaves, Michel Berckmans, Phil Minton, Sally Potter, Tim Hodgkinson, Veryan Weston e Zeena Parkins.
Due i set e quattro le formazioni: oltre agli Henry Cow, i Music for films, New From Babel, Oh Moscow. E soprattutto un solo grande omaggio a Lindsay Cooper, la versatile musicista – il fagotto era il suo strumento di riferimento – scomparsa un anno fa.
Gli spartiti se ne stavano in bella mostra davanti agli occhi di ogni musicista, a segnalare quanto la musica che veniva giù dal palco fosse una scritta, meditata, sedimentata e soprattutto provata su se stessi. Ma anche all’alea del momento si lasciava il giusto spazio; la si lasciava insinuarsi come un venticello che reclama le attenzioni dell’istinto. Così si è presto creata quell’atmosfera che solo esseri musicali come Frith e Cutler sanno inventare. Ed era come se si srotolasse dinanzi a noi una mappa sonora fittamente intessuta di sogni e di cruda realtà; un tessuto utopico, onirico, doloroso, dolcissimo e stellare.
Una mappa attraverso la quale si lasciava osservare un mondo pieno di disarmonie, eppure capace di trovare isole malinconiche di sospensione e di quiete, dove la poesia scabra dell’esistenza appariva come d’improvviso e quasi inaspettata.
I brani, a differenza delle grandi suite degli anni Settanta, erano ben segmentati. I musicisti si disponevano sul palco, di volta in volta a formare nuovi ensemble: ed ecco che veniva il momento di ascoltare la voce brechtiana di Dagmar Krause o di seguire con gli occhi oltre che con le orecchie le disarticolazioni ritmiche di Cutler.
Musiche scure s’interrompevano all’improvviso, dando il posto a marcette ironiche e poi liberando la forza free di un accatastarsi disordinato di suoni. Finché, nel secondo set, sono prevalse le canzoni, anche queste inclassificabili, affidate soprattutto alle voci di Sally Potter e di Phil Minton. Fino ad arrivare all’essenzialità assoluta di un duetto tra il basso di John Greaves e la voce di Minton. Poche note, tanti silenzi, un’energia non bastevole, tanto che il cantante ha finito fischiando; un fischio fatto come se si volessero richiamare le forze primordiali del mondo, ma con semplicità.E che emozione vedere Fred Frith toccare e fare oscillare la sua chitarra, come se non fosse più un semplice strumento, ma piuttosto un tramite per rivelare un pensiero fatto di dita.
È così venuta avanti la forza di una musica che non si è mai fatta fermare dalle leggi del mercato: una musica sempre nascente, che è tale perché non è mai disgiunta dalla vita di chi la compone e la suona.
Alla fine nessuno voleva più andar via. Ne sarebbe stato felice Pierantonio Pezzinga, il socio di “Area sismica”, scomparso anche lui prematuramente come la Cooper. Sarebbe stato felice, come lo è stato il pubblico, di constatare che l’utopia musicale ben vissuta fa invecchiare bene.