Pier Mario Fasanotti
Il pamphlet di Filippo Maria Battaglia

Agli albori della casta

S’intitola “Ma lei non sa chi ero io!” il nuovo, documentatissimo libro sugli sprechi di casa nostra, dedicato ai primi vent’anni della Repubblica italiana. Una storia antica ma tragicamente attuale…

Fino a non molto tempo fa se all’italiano mediamente colto si chiedeva che cosa fosse la “casta”, rispondeva che era la punta più alta della piramide economico-sociale dell’India. Ovvero gli intoccabili. Se la stessa domanda la si pone oggi, quasi tutti ricordano l’omonimo libro-inchiesta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella (Rizzoli 2007), entrambi giornalisti del Corriere della Sera, i quali, dati alla mano, elencavano gli scandalosi privilegi della nostra classe politica. Sprechi, abusi che fanno rizzare i capelli. Dal costo della mensa (dove si mangia molto bene) dei due rami del Parlamento sensibilmente inferiore a quello sopportato dai netturbini di Venezia, dalle spese per i dipendenti del Quirinale sproporzionate rispetto, per esempio, a quelle del regio palazzo di Elisabetta II d’Inghilterra. Nell’elenco figurano tante vergogne, dure a morire anche nei mesi di governo del rottamatore fiorentino. Irene Pivetti, ex presidente della Camera per meno di due anni, ha avuto per diversi anni la scorta. Clemente Mastella riceve la pensione da giornalista pur avendo lavorato meno di un anno alla Rai. Alcuni parlamentari abitano in appartamenti il cui canone è irrisorio, per non dire altro. Ci si chiede: dopo la fine del fascismo l’Italia ha mai avuto la patente di sobrietà? Risposta: sì, ma per poco.

uomo-qualunqueS’intitola Ma lei non sa chi ero io! il documentatissimo libro di Filippo Maria Battaglia, edito da Bollati Boringhieri (73 pagine, 8 euro), un nuovo pamphlet contro gli immarcescibili privilegi politici. L’autore, brillante e preciso (ha condotto ricerche per sei mesi, anche presso la fornitissima biblioteca del Senato), ricorda nelle prime pagine la protesta contro i “professionisti della politica” condotta dal direttore dell’Uomo qualunque, Guglielmo Giannini. Il settimanale, fin dal primo numero (27 dicembre 1944), tuona contro l’“arrivismo spudorato”. I politici vengono chiamati “politicanti”. Dalla carta stampata a movimento parlamentare, espressione di una destra bofonchiante, paladina di un’Italia che dovrebbe essere governata da “amministratori” o ragionieri e non da politici di mestiere. L’Uomo qualunque ha un immediato successo: in pochi mesi 850 mila copie. Eppure il bersaglio principale non è la corruzione, bensì “il trasformismo e l’arrivismo degli ex fascisti” che fanno a gara per sdraiarsi sui setosi scranni del nuovo potere. Non esisteva ancora la casta.

Gli italiani vanno alle urne nel 1946. Si tratta, secondo un’inchiesta di Vittorio Zincone, di “deputati poveri” che frequentano l’Assemblea Costituente di Montecitorio che peraltro non ha ancora formalizzato l’assegno mensile ma indicato soltanto una cifra “a titolo di acconto”. Gli onorevoli, soprattutto quelli che si spostano da un dibattito all’altro, da una riunione a un’altra, hanno spesso il conto in rosso e dormono in modesti alberghi o addirittura in “pensioncine”. Sono i nonni, scrive Filippo Maria Battaglia, di coloro che faranno a gara per avere le “auto blu” e gli sconti praticamente su tutto. Ma la vita quasi seminarista di chi si occupa della res publica è destinata rapidamente a cambiare una volta individuati i luoghi (banche, fondazioni, consigli d’amministrazione di enti, ecc.) dove sedersi e ricevere oboli.

Assemblea Costituente_25-6-1946_prima-sedutaNel giorno di San Valentino del 1947 (governo De Gasperi), il molto chiacchierato leader dell’indipendentismo siciliano, Andrea Finocchiaro Aprile, tuona contro lo strapotere democristiano, e fa i nomi di coloro che «vanno alla ricerca affannosa di tutti i posti più largamente retribuiti». Nella lista compaiono anche due ministri: Pietro Campilli (Commercio estero) ed Ezio Vanoni (Bilancio e Finanze). Anni dopo s’indigna anche Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare Italiano: «Non si tratta solo del cumulo delle cariche, con o senza stipendi, compensi straordinari, gratificazioni, ecc.: si tratta dei “ controllori controllati”. Non si può essere controllori e tutori del denaro pubblico e insieme, spesso, sperperatori dello stesso». Parole sante, si potrebbe dire, visto che questa odiosa prassi si è allargata fino a diventare inondazione. Insomma, poco tempo è intercorso tra la forzata sobrietà e l’ingordigia più spudorata.

Molti tra coloro che si sono liberati di spille e tessere del Ventennio manifestano poi un’insana e ultra-disinvolta inclinazione per i fondi speciali, creandone di “neri”. Anche all’interno del Palazzo non mancano esempi di burocrazia tardo-bizantina. Il giornalista Giovanni Ansaldo scriveva anche degli uscieri, i veri «signori dei Palazzi romani, postulanti di mance, delusi nelle loro aspettative» e, come aggiunge Battaglia «in grado di unire l’orgoglio del proprio potere al disprezzo per il cittadino comune». Di lì la ben nota sicumera di certi papaveri e dei loro portaborse, o di quelli oggi per nulla estinti, anzi diventati, tanto per citare libri da loro stessi scritti “sussurranti”, mediatori, faccendieri d’ogni sorta, tenutari di imbarazzanti segreti quindi ricattatori de facto. L’autore del pamphlet di cui parliamo descrive anche certi malcostumi dei membri dell’Assemblea Costituente, arena di «discorsi grigi e noiosi», teatro dove gli eletti «oscillano tra prolissità e vanità, alla sola ricerca di un titolo su un giornale o sul settimanale di provincia» (fonte: l’inchiesta dell’Europeo sulla prima fase della democrazia parlamentare). Non mancano però le eccezioni. Per esempio Sandro Pertini, Vittorio Emanuele Orlando e qualcun altro «con trascorsi pre-repubblicani alle spalle». I più logorroici? Indubbiamente i comunisti, gli indipendenti e i repubblicani. La fama del prolisso numero uno veniva attributo al dc Meuccio Ruini, soprannominato “l’usignolo del microfono”. Ai vari comizi inizia il genuflettersi italico. Mario Melloni, ex dc diventato il satirico Fortebraccio dell’Unità, riporta frasi di questo tenore: «Posso offrire?». «Grazie, zio Amintore (Fanfani, ndr), lei vuole sempre disturbarsi». Il ceto medio meridionale (ma non solo quello, aggiungeremmo noi), “allunga la mano”.

FANFANIAll’inizio degli anni Cinquanta è l’economista Ernesto Rossi a puntare il dito contro «il grande banchetto dello Stato italiano», affermando che il nostro paese «è diventato la Bengodi del cinema: fiumi di milioni di lire vengono stanziati per premi ed esenzioni a produttori di film nazionali, con l’ossequiosa acquiescenza di quasi tutto il Parlamento, comunisti in testa». È una sorta di grande parco-gioco che costa ogni anno 3473 milioni di lire, ossia sette volte la cifra destinata al Consiglio nazionale delle ricerche, dieci in più rispetto a quella destinata alla lotta contro il cancro. Della corruzione si comincia a parlare apertis verbis. Curzio Malaparte se la prende contro «le cento e cento occasioni in cui il Parlamento italiano ha tradito la fiducia del popolo». Giulio De Benedetti, direttore de La Stampa, chiede nel ‘53 a governo e partiti di rispondere a una semplice domanda: «Sono vere le voci che gli abusi del regime fascista continuano?». Il giurista Piero Calamandrei è molto duro: «la maggioranza è stata portata dalla sua stessa onnipotenza schiacciante a identificare la Costituzione con sé medesima; le sorti della Costituzione colle sue proprie sorti elettorali. Padrona del governo, si è accorta che chi governa può benissimo fare a meno di tutti quei controlli costituzionali che lo spirito romantico dell’Assemblea costituente aveva sognato».

E vai, con un crescendo da malaffare. Il Quirinale e il generale De Lorenzo, capo del Sifar (che schedava migliaia di politici, ecclesiastici e “grand commis”) paiono in stretta combutta. Il giornalista Renzo Trionfera scava e trova il marcio. Compresi gli effetti della “mano munifica” di Enrico Mattei dell’Agip-Eni, che distribuisce soldi in nero a vari partiti. Si moltiplicano i traffici di bassa lega. Uno di questi riguarda un francobollo, il cosiddetto “Gronchi rosa”. Spieghiamo: il 3 marzo 1961, in occasione di un viaggio presidenziale in Sudamerica le Poste emettono un francobollo, ritirato solo diverse ore dalla sua limitata distribuzione per un errore grafico riguardante i confini di Perù ed Ecuador. I quotidiani annusano la truffa, ossia l’immediato arricchimento dei soliti noti, possessori di quel quadratino di carta che vale milioni. Il settimanale Abc scrive della “porticina” che Gronchi ha fatto aprire su via dei Giardini (un lato del Quirinale), che veniva aperta a certe amicizie particolari del presidente. Risultato: provvedimenti ad personam da parte del Parlamento. Uno di questi sarà chiamato “legge Pompadour” in quanto strettamente legata all’intimità del capo dello Stato. A proposito dello scandalo delle banane (dal Corno d’Africa). Ne è coinvolto l’ex ministro delle Finanze Trabucchi, responsabile del controllo delle aste per i grossisti. Viene fuori il peggio, sotto la giustificazione di cartapesta: la Somalia è sotto tutela italiana. Trabucchi scivola poi in un altro scandalo: avrebbe favorito l’importazione del tabacco messicano favorendo società “vicine” alla dc. L’“imputato” è salvato in extremis. Dalla sua parte Francesco Cossiga. Mentre Aldo Moro, su varie accuse scaraventate contro ministri e parlamentari, dichiarerà soavemente: «La nostra classe politica è profondamente onesta. La fibra è buona e non merita la sfiducia del paese».

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