Intervista al grande regista
La bibbia di Greenaway
«La gente non è preparata per affrontare ciò che non presenta le caratteristiche convenzionali della realtà. E la realtà è di per sé una convezione». Incontro con Peter Greenaway, in occasione dell'uscita di «Goltzius and the Pelican Company»
Arriva ufficialmente in Italia, dopo la proiezione nel 2012 al Festival Internazionale del Cinema di Roma e nel 2013 al Cinema Arcadia di Melzo, Goltzius and the Pelican Company di Peter Greenaway. Distribuito da due giovani società milanesi, Lo Scrittoio e Maremosso, il film sarà proiettato su scala nazionale nei teatri più prestigiosi della nostra penisola, come fosse uno spettacolo in cartellone o in pre-apertura della stagione teatrale 2014-2015. Ho avuto così la straordinaria opportunità di partecipare alla tavola rotonda che si è tenuta presso la Sala Squarzina del Teatro Argentina di Roma nel pomeriggio di martedì scorso ma anche quella, ancora più straordinaria, di scambiare privatamente due parole con il grande artista gallese.
L’atmosfera che pervade la tavola rotonda è informale, vivace, intima. Greenaway è incredibilmente generoso quando, con i giornalisti presenti, parla del suo lavoro, quando condivide la sua personalissima visione del cinema e del mondo e ogni sua parola, ogni sua espressione è intrisa di un’irresistibile quanto arguta ironia. Si parla di sessualità (molto di sessualità), si parla di religione, si parla di comunicazione, arte, tecnologia, di cinema, ad un certo punto nasce anche uno scherzoso ma pur sempre serio dibattito su Shakespeare e Goldoni.
L’ironia, l’entusiasmo, la lucidità, la voracità culturale di Greenaway sono contagiosi tanto che quando arriva finalmente il mio turno di parlare con lui è ridendo che gli stringo la mano, ricordando nel mio intimo con intenso e più che mai vivo piacere perché in tutti questi anni ho amato così profondamente la sua produzione artistica.
Oggi ha dichiarato: «Dio non esiste. Satana non esiste. Freud non esiste». L’osservazione più intelligente degli ultimi vent’anni. Le dispiace se ci faccio una maglietta da indossare quando esco di casa?
Non ci è rimasto nessuno da poter incolpare. Oggi siamo i soli responsabili delle nostre azioni. E questa, penso, sia una presa di posizione profondamente emancipata.
Durante la tavola rotonda l’ho osservata molto e più di una volta mi è venuto da ridere. Sono molto felice. Ho voglia di cantare e ballare. Ho come l’impressione che lei sia un passo avanti a noi anche se non le va di farcelo sapere.
Davvero?
Sì, ho proprio quella sensazione. Oggi si è parlato tanto di nudità, di nudità maschile, si è ritornati sull’argomento più e più volte, alla fine si parlava sempre di quello e si capitava sempre su quello, e tutto ciò prova quanto lei abbia dimostrato esattamente quello che voleva dimostrare, vale a dire di quanto sia immaturo il nostro rapporto con il corpo, in particolare quello maschile. Io personalmente però penso che il voyeurismo che caratterizza il suo cinema – e mi corregga se sbaglio – interessi di più la sfera del sapere. Cosa ne pensa?
Be’, è abbastanza assurdo, vero? Il cinema è una grande pozzanghera nella quale la gente piscia e vi ha pisciato per così tanto tempo da renderla sempre più stantia e stagnante. Tutto ciò perché sembra che ci siano certe sfere dell’esperienza delle quali è meglio non parlare, che sono vissute come illegittime. Io ho diretto un film sulla calligrafia intitolato I racconti del cuscino e nessuno ha mai fatto film sulla calligrafia. Mi piacerebbe molto poter imbrigliare questa straordinaria eredità culturale che abbiamo, così piena di immagini incredibili, e di dipinti, di riferimenti storici e di Persone. La nostra lingua, il fatto che noi due stiamo parlando in Inglese, presuppone la presenza di milioni di citazioni. Ogni volta che apriamo bocca per parlare stiamo citando qualcosa, probabilmente Shakespeare (sorride ironico). Oggi accettiamo che la Lingua sia cosa da imparare, da apprezzare. E allora perché non possiamo fare la stessa cosa quando si tratta della nostra tradizione visiva che è così incredibilmente solida, forse non quella inglese, ma quella continentale sì. Penso sia una materia legittima, capace di arricchire le nostre vite e dovremmo renderla parte di tutti quei mezzi che impieghiamo per comunicare l’uno con l’altro. Siamo nel XXI° secolo, abbiamo mezzi che ci permettono di condividere con il mondo intero. Quando la gente mi chiede per chi faccio cinema sarebbe incredibilmente arrogante da parte mia dire: faccio film per te. Io non posso fare film per la gente. Una persona potrebbe essere affascinata da… dei pinguini in sella a delle motociclette.
Prima di tutto, io come potrei esserne al corrente e poi se è vero per una persona non lo sarà per il suo vicino di casa e tutti gli altri che abitano nella stessa via. Quindi come posso fare film per gli altri? La cosa migliore che posso fare è quella di fare film per me stesso. Perché so che tutti condividiamo un sapere comune che è vastissimo. Può non essere lo stesso in tutto e per tutto, ma tu sai chi è Michelangelo e allo stesso tempo sai anche chi è Lady Gaga. Sai chi è Freud ma magari non sai chi è Spinoza, ma tutti fanno parte della stessa, incredibilmente ricca rete di informazioni che coinvolge il mondo intero e se vogliamo che il cinema sia vivo e pertinente, maturo e sofisticato dobbiamo fare uso di quella rete.
Dove ha girato Goltzius? Perché ho notato questa imponente struttura industriale che sembra agire da contenitore per le scene del film, quasi fossero le stazioni di una via crucis…
Molto strano, vero? Abbiamo una storia che avviene tra il 1590 e il 1600 ma che in realtà è ambientata in un deposito per le navi del 1920. Penso rispecchi la mia opinione sul cinema storico, sulle storie in costume. Sono entrambi molto ridicoli, totalmente ridicoli. Si basano interamente su un’esagerata sospensione dell’incredulità ma, alla fine, tutti sanno che quei personaggi che indossano sontuosi costumi probabilmente indossano anche delle mutande di Marks&Spencer. Lo sappiamo tutti e tu sai che io so che tu sai che io so. Si finisce così con stratificare l’impossibile, stratificare l’impossibile drammaturgico.
Perciò penso – e spero tu sia d’accordo – che Goltzius sia, in modo molto ironico, un’opera profondamente consapevole della propria artificiosità. La gente si comporta in maniera molto strana, hanno questi dialoghi così poco realistici, non dicono di certo cose come mi passi il sale, cara, grazie. È un dialogo molto sofisticato, ricco di metafore e riferimenti incrociati. Abbiamo addirittura un personaggio principale che cerca di parlare l’inglese come lo si parlava a Newcastle nel 1600. L’unico contatto che l’Olanda ha con la costa orientale avviene quando si tratta di reperire il carbone proprio a Newcastle. E tu sai anche lo strano significato dell’espressione dare carbone per Newcastle (idioma che indica un’azione imprudente e priva di senso, n.d.r.).
Ancora una volta ci troviamo di fronte a una forma particolarmente ironica di auto-reflessività. In un certo senso, l’intero film è uno scherzo artificioso molto, molto sofisticato.
Verissimo! Infatti, le vicende del margravio, che nel film dovrebbero rappresentare la trama principale, quasi non si distinguono dalle scene bibliche della Pelican Company…
Sono molto felice che tu dica questo perché la sintesi è stata una preoccupazione costante. Come possiamo interpretare queste storie euristiche che tutti conosciamo grazie al catechismo se non dando loro una svolta inedita, una nuova interpretazione che corrisponde, suppongo, ad un punto di vista ateistico e ancora di più alla visione di qualcuno che guarda con grande cinismo all’ipocrisia della cristianità. E non solo a quella della chiesa cattolica, ma anche a quella di tutte le religioni di stampo superstizioso.
Mi ha colpito molto la presenza dei mori nel film. Persone vestite e truccate in modo da sembrare quelle statue tanto di moda in quel periodo storico…
Il film affronta uno strano periodo, ancora più strano del barocco, chiamato Manierismo, che nasce dopo il tardo rinascimento di Michelangelo, Da Vinci e Raffaello e ciò che è il Barocco di Rubens, Rembrandt e molti altri. Ma penso sia ambientato in un periodo durante il quale le persone sperimentano, si avverte ancora il forte impatto della grandezza di importanti pittori e si fa fatica a trovare una nuova identità. Lo stesso penso si possa dire dell’inizio del XXI° secolo, stiamo ancora sperimentando, abbiamo nuovi linguaggi con i quali giochiamo, non siamo del tutto sicuri di cosa faremo, siamo profondamente sensazionalistici. Basta solo pensare a quanto sia sensazionalistico il nostro cinema, così pieno di nozioni eccessive sul sesso, il che spesso tradisce una mancata fiducia in se stessi, e stiamo cercando di capire come e dove indirizzare tutti questi straordinari mezzi espressivi.
Perciò credo che siamo costantemente – spero – impegnati in un confronto fra l’epoca storica passata e l’oggi. Credo anche che sia estremamente vero quanto sia inutile produrre film storici a meno che non si stia cercando di dire qualcosa sul presente. Goltzius è sì un incisore del 1600 ma è anche Peter Greenaway, un filmmaker di oggi. I parallelismi si notano quando mi lamento costantemente di alcune cose, come per esempio degli attori e della loro volubilità, di come i drammaturghi possano essere una spina nel fianco, o di come la concezione di dramma nel 1590 venga poi ripresa dallo stesso uomo dieci anni dopo e nel suo nuovo sguardo si avvertano i cambiamenti inerenti alla sessualità e alla nuova percezione del suo sé. Si avvertono anche nella presenza di quei baffi finti che indossa e che gli facciamo levare volutamente al fine di rivelare l’ennesimo strato di autoinganno.
Durante la tavola rotonda si è parlato di reality TV e dell’ossessione di oggi per la realtà. Mi chiedevo se la pensiamo allo stesso modo. Negli ultimi anni mi sono accorta di come cinema e TV abbiano mutato il nostro modo di elaborare psicologicamente il comportamento umano. Se per esempio una persona reagisce alla morte in un modo che non coincide con ciò che abbiamo visto sullo schermo e ciò che continuamente vediamo sullo schermo, allora siamo portati a pensare che quella reazione sia falsa…
Vero. Penso che tragicamente la situazione sia anche peggiore. La gente non è preparata per affrontare ciò che non presenta le caratteristiche convenzionali della realtà. E la realtà è di per sé una convezione. Il free cinema degli anni ’60 con pellicole come Sabato sera, domenica mattina, Sapore di miele, Gioventù amore e rabbia, tutte storie che venivano dal palcoscenico in quanto erano in origine tutte delle piéce, sono state accolte da un pubblico che le aveva prese per reali. Ma se oggi guardiamo quei film ci accorgiamo di quanto fossero totalmente irreali. Perciò penso che la realtà sia una convenzione elegantemente organizzata perché si adatti al periodo specifico in cui viviamo.
Si è parlato molto della chiesa cattolica questo pomeriggio. Cosa pensa della Chiesa di Inghilterra?
Ho sempre pensato che la Chiesa di Inghilterra fosse un’organizzazione secolare molto antica. Ha molto poco a che vedere con la religione. È un’organizzazione sociale e politica e se penso alle origini e il loro tempo, quando Enrico VIII tentò di scoparsi Anna Bolena e tutto il ridicolo meccanismo messo in atto per l’occasione, mi rendo conto di quanto sia tutto ridicolo. Se uno pensa di dover essere cattolico allora che lo sia fino in fondo, senza tutte queste stupide scuse con le quali gioca la Chiesa di Inghilterra. È un fenomeno fiacco che alla fine non è né carne né pesce.
Enrico VIII avrebbe potuto inventare l’accordo prematrimoniale…
Sì, avrebbe potuto. Sarebbe stata una mossa più intelligente. Probabilmente era più cattolico lui di Caterina d’Aragona.
Adoro la sua opera If Only Film Could Do the Same. Dovesse mai leggere sul giornale che è stata rubata, sappia che è sicuramente appesa nel mio studio…
(Greenaway ride). Come la conosci? Quel quadro è abbastanza sconosciuto.
Goltzius mi ricorda quell’opera perché in essa lei impiega così tante tecniche e facendo così sembra voler dire che le possibilità del cinema sono infinite…
Be’, penso che il 99,999% dei registi non usi il mezzo. Sono ancora molto legati all’idea soggettiva di realtà e inseguono solo quella. Siamo nel bel mezzo di una straordinaria rivoluzione visiva e digitale che potrebbe dare a tutti la possibilità di comportarsi come Picasso e invece i filmmaker (sospira) hanno tutti un occhio chiuso e le mani legate dietro la schiena. Penso semplicemente che la gente non stia utilizzando il mezzo. E penso che abbiamo l’obbligo di farlo. Un vero artista usa sempre appieno il mezzo che il suo specifico periodo storico rende disponibile. Vermeer nel 1670 usava una camera oscura e penso che sia obbligatorio usare il linguaggio del proprio tempo. Per questo penso che il cinema sia parzialmente morto, se non morto del tutto. È un fenomeno datato, comprensibile solo ai nostri nonni. Dobbiamo recidere quel cordone ombelicale che collega il cinema alla libreria.