Gianni Cerasuolo
I settant'anni di "Rombo di Tuono"

L’Iliade di Gigi Riva

Non solo un grande campione, non solo un esempio di passione e rigore sportivo, non solo il simbolo del riscatto di un popolo: Gigi Riva è soprattutto un grande uomo. Come tale bisogna festeggiarlo

Gigi Riva non è solo a festeggiare a Cagliari questi settanta anni. Dietro di lui c’è tutta un’isola che lo rispetta e lo coccola, dietro di lui c’è tutto un popolo di amanti del bel calcio che non dimenticheranno mai le sue gesta. E non dimenticheranno mai che razza d’uomo sia, un alieno per quell’ambiente, anche quello naif di quarant’anni fa.

La definizione che a lui più piace è quella di “hombre vertical” datagli da Gianni Mura. Lo ha ripetuto anche qualche anno fa in una conversazione radiofonica con il giornalista di Repubblica andata in onda sui canali Rai della Sardegna e che si può trovare sul sito a lui dedicato dai tifosi del Cagliari. «Brera mi chiamava Rombo di tuono – osservava Gigi -. Una definizione che mi è rimasta appiccicata addosso, gliene sono riconoscente, anche perché a formularla è stato il più grande giornalista sportivo. Ma “hombre vertical” mi disegna alla perfezione anche come uomo».

Questo uomo forte nei muscoli martoriati e fragile dentro, che ha lasciato – da dirigente – la nazionale di calcio perché le partite gli mettevano troppa ansia tanto da dover prendere un Lexotan come ha detto al Corsera, perché aveva da combattere con quella roba maligna e devastante che è la depressione, perché le sue ossa sono dolenti dopo tutte le botte ricevute e lo scavare dei ferri dei chirurghi, vuole stare lontano dai media anche il giorno del suo compleanno, il 7 novembre. Non è mai stato un uomo da copertina, lui. Solo con i suoi affetti, i suoi figli, i suoi nipoti, solo con migliaia di persone che stanno ancora parlando della sua potenza e della sua eleganza. Ancora si narra di quel sinistro secco e rasoterra che era un incubo per i migliori portieri: Zoff è stato il numero 1 più battuto da Gigi Riva; Albertosi lasciava l’allenamento, accusando malanni immaginari, quando quel capoccione non si decideva ad andare sotto la doccia e si metteva a tirare legnate da fuori area; Cudicini, quand’era al Milan, dovette chiamare i massaggiatori dopo aver respinto delle bordate dell’ala sinistra. Ma non era solo forza, Gigi Riva. Ancora si favoleggia di acrobazie straordinarie, di piede, di testa, in rovesciata. A riguardarli su Youtube, ti colpisce il fatto che i suoi gol non erano mai fortuiti, buttati dentro la porta per caso, una spizzata, un rimpallo. Sicuramente colpacci di questo formato ce ne sono stati, ma l’esecuzione dei gol di quell’ala sinistra racconta un’altra storia, una favola, un mito, una leggenda.

Riva non è un taciturno, è anche uno che ama parlare: un paio di volte mi è capitato di chiamarlo sul telefonino ed ha sempre risposto. Forse i ragazzi che indossano la maglia di Messi o di Cristiano Ronaldo sanno poco o nulla di lui, bisognerebbe quindi dedicargli più di qualche serata in tv, come si sta facendo con Eduardo. E mandare i filmati delle sue giocate alle scuole calcio. Con le sue rare interviste: così si capirebbe, forse, che cosa è un campione d’uomo.

Gigi Riva è una persona semplice, lo è sempre stato, è uno che ha sofferto, da bambino (presto orfano, i collegi, le fughe dai collegi) e da adulto. Ha avuto sempre e soltanto una risposta quando nel corso degli anni hanno continuato a chiedergli, perché avesse rifiutato le offerte dei club più ricchi e famosi, dall’Inter alla Juve: «L’aspetto umano non ha prezzo», ha ripetuto. Aggiungendo: «Non volevo mettere a rischio il mio stare bene in Sardegna, lo stare umanamente bene in Sardegna, non volevo tradire della gente che mi ha dato tutto: una famiglia, l’amicizia, il rispetto». «Avevo una predisposizione caratteriale per diventare sardo», ha detto per togliere ogni dubbio circa il suo ancoraggio sull’isola. Agnelli arrivò ad offrire al Cagliari agli inizi degli anni Settanta un miliardo di lire e cinque, sei giocatori; non dei panchinari, piuttosto gente giovane, ma già di livello, tipo Cuccureddu, Gentile, Bettega.

Si rischia la retorica quando si parla di Gigi Riva, come se, per esaltarne le gesta, si facesse a gara per affibbiargli aggettivi, paragoni con qualche eroe dell’epica o del cinema. Si rischia di essere ridicoli o patetici. Perché i migliori tra gli scriba hanno già dato fondo ad un repertorio che è diventato letteratura. Non c’è altro da aggiungere. Allora, sono andato a leggermi quello che scrisse Brera quando lo battezzò Rombo di tuono. Guerin Sportivo del 19 ottobre 1970, commento alla partita Inter-Cagliari, 3-1 per i sardi già campioni d’Italia nella stagione precedente con i vari Albertosi, Martiradonna, Cera, Domenghini, Greatti, Nenè, Riva. A San Siro firmarono il successo Riva (due gol) e Domenghini; per l’Inter alla fine segnò Mazzola che ebbe a dire nel corso della gara a Gigi, quasi implorando: «Fermatevi, altrimenti qui ci massacrano».  Il titolo del pezzo di Brera, che allora era il direttore del Guerino, recita: «Il mio Gigi Riva Rombo di tuono ha distrutto l’Inter-Codogno» (cioè un’Inter da piccolo centro come il comune del Lodigiano). L’attacco dell’articolo è questo: «Il Cagliari ha subito infilato e umiliato l’Inter a San Siro. Oltre 70.000 spettatori: se li è meritati Riva che qui soprannomino Rombo di tuono. Il Cagliari ha giocato mezz’ora, non di più. Poi si è rifatto alla difesa… Il tripallico Riva avrebbe potuto segnare anche il doppio. Non ha voluto. E soprattutto non hanno voluto i suoi compagni. Il gol di Domenghini era una battuta di dribbling un po’ vivace su Vieri: entrava lemme lemme la palla in diagonale. Riva avrebbe potuto rubare il gol: l’istinto era quello. Ma si è visto che d’improvviso ha ragionato da leale atleta, e l’ha lasciata entrare. Domenghini sognava la degna vendetta: la gente insinuava facezie sui rapporti tra lui e Rombo di tuono. Ecco qua».

Prima di Rombo di tuono, Gigirriva o Luis Riva, come pure lo chiamava, l’attaccante era stato per Brera re Brenno, conquistatore di Roma, il capitano di ventura che batte la grande potenza. E per i suo compagni di squadra, il mancino fu anche il selvaggio, anzi Hud il selvaggio, come il personaggio di Paul Newman in un film di Martin Ritt del 1963. Ma tanto era prepotente e violento il personaggio del film, tanto era romantico e gentiluomo Riva.

A Brera, Rombo di tuono gli deve essere venuto spontaneo ammirando quella punizione nella partita con l’Inter. Andatela a vedere sui filmati che trovate in Rete. La cinepresa indugia a lungo su Lido Vieri, il portiere dell’Inter mastica nervosamente una gomma, sembra quasi presagire il proprio destino. Greatti, una mezzala taciturna e geniale, e Riva sono al vertice sinistro dell’area nerazzurra. Greatti passa la palla a Riva che carica il sinistro, colpisce con il collo pieno e lascia partire uno di quei missili terra-aria che non si alzavano mai dal terreno di gioco, imprendibili per un portiere. Vieri è fulminato.

Ma gli dei sono ingiusti, si sa. Pochi giorni dopo quella partita, un’altra mazzata si abbatterà su Riva e sul Cagliari, che infatti non riuscirà a bissare lo scudetto dell’anno precedente (lo vincerà proprio quell’Inter maltrattata a San Siro). È il secondo, grave infortunio di Riva: al Prater di Vienna, partita di qualificazione per gli Europei, un medianaccio di nome Norbert Hof interviene alle spalle di Gigi, lo falcia, gli rompe tibia e perone della gamba destra: «Non me l’aspettavo – diceva l’ex attaccante – io avevo messo nel conto gli infortuni, facevano parte del mio lavoro». Lavoro, un termine che lui usa spesso quando parla della sua carriera. «Tutto quello che si guadagnava veniva dal campo». Non c’erano sponsor, non c’erano esclusive, non c’erano spot pubblicitari. Quando il Cagliari vinse lo scudetto, tra le prime cose che disse Martiradonna ci fu anche questo pensiero: «Meno male, avevo preso la cucina a rate…».

Aveva fatto saltare il banco quel Cagliari vittorioso nel 1970. Aveva spezzato il potere sabaudo-lombardo. E con un lumbard che aveva fatto il percorso al contrario, da Leggiuno (Varese) a Cagliari. Anche se all’inizio a Gigi Riva quella destinazione non piaceva proprio, aveva solo 18 anni, lui sognava di andare dal Legnano all’Inter, essendo peraltro tifoso nerazzurro. Allora in Sardegna si veniva ancora mandati per punizione. Non c’erano Coste Smeralde ed Aga Khan. «Non c’era tutto il cemento che ha devastato questo paradiso», avrebbe detto in seguito il bomber.

In tanti abbiamo voluto bene a quel Cagliari: fu una rivoluzione, David che abbatte Golia, è accaduto a volte nel nostro campionato: il Cagliari, il Verona, il Torino, la Lazio, la Samp ma anche la Roma di Falcao e il Napoli di Maradona. Non credo che potrà succedere ancora, il calcio moderno è finanza, tatticismo e muscoli. Quello era fantasia e semplicità.

Il Cagliari scrisse un poema nazionale, unì anziché dividere. Quella terra non venne vista più come la terra dei banditi, appartata e silenziosa, la terra della brigata Sassari e di Emilio Lussu, la terra di Gramsci. C’era anche un’allegra brigata che aveva sfasciato l’ordine costituito: «Per avere un rigore dovevi portare un certificato medico superiore ai sette giorni…» scherzava ma non troppo Riva. La comandava, quella ciurma, Manlio Scopigno (nella foto), il cosiddetto allenatore-filosofo, più semplicemente un grande intenditore di pallone, un tipo che si metteva tranquillo in panchina con la sua sigaretta e durante la settimana non rompeva le scatole ai suoi giocatori. Li trattava da uomini, non da bambocci. Non stava a controllare se facessero sesso con qualche donna, né quelli spiattellavano le loro imprese a letto su qualche social network. Mura ha raccontato varie volte dei ritiri in cui si fumava  e si giocava al ramino pokerato. Una volta Scopigno entrò nel salottino dell’hotel di Bassano del Grappa dove la squadra era in ritiro e attorno ad un tavolo c’erano Riva, qualche altro suo compagno e lo stesso giornalista, allora alla Gazzetta dello Sport. Era tardi, l’aria nella sala era irrespirabile, piena di fumo, come in un noir degli anni Cinquanta. Scopigno si limitò a dire: «L’ultimo che esce, apra le finestre». Poi i giovanotti la domenica andavano in campo e facevano il proprio dovere. E vincevano uno scudetto. Ma non finiva lì perché quegli scavezzacollo con la maglia rossa e blu ma più spesso bianca con i bordi rossoblu e i quattro mori sul petto, sapevano che rappresentavano qualcosa. Ricorda Riva: «In trasferta ci gridavano di tutto: pecorai, banditi. Ma con noi c’erano tutti i sardi sparsi per l’Italia, 8-9mila persone ogni domenica negli stadi e tutti quegli altri sparsi per il mondo. Eravamo una questione di orgoglio, di rivincita per tanta gente».

Riva ha vinto tre volte il titolo di capocannoniere: nel ’67, ’69 e ’70. Conta 42 presenze in nazionale e 35 gol, un primato ancora oggi. Ricordo appena, devo averla vista in qualche Domenica Sportiva del tempo, la celebre rovesciata al Lanerossi Vicenza, nel gennaio del ’70 allo stadio Menti. Per anni ho pensato che fosse la copertina delle figurine Panini, poi mi dissero che quella figura stilizzata era Carletto Parola in uno dei suoi colpi più famosi. Ma sospetto che la Panini per un po’ ci marciasse con quella immagine, lasciando credere che si trattasse di Riva. Ho riletto Brera (Il più bel gioco del mondo, a cura di Massimo Raffaelli, Bur Rizzoli) per documentarmi su quella partita finita 2-1 per il Cagliari con doppietta di Riva ed ho scoperto questa chicca tra le note sotto il tabellino che ogni giornalista, quindi anche Brera, allora dettava: «…A fine partita vengono assediati… i dintorni dello stadio e le uscite degli spogliatoi. Io sento urlare gente che ritiene di aver perso la domenica e vorrebbe farla perdere anche a me. Cercate in cronaca nera se è stato linciato l’arbitro. Io ho altro da fare». Strepitoso, Gioann. Come nella descrizione della rovesciata: «…Gori ha crossato dal fondo (la palla pareva fuori): sulla destra era appostato Domenghini, che da una dozzina di metri ha incornato verso porta: la palla era avviata a uscire a circa due metri di altezza: su questa palla, in posizione centrale, si è alzato scagliando a rovescio il sinistro Gigirriva da Leggiuno: in salto mortale all’indietro, il detto Gigirriva ha colpito di esterno sinistro deviando ciclonicamente la palla nell’angolo alto alla sinistra di Pianta, ovviamente impietrito».

Auguri, Riva. Abbassa e tendi ancora quelle braccia come facevi dopo aver segnato un gol. Era il modo di gridare al mondo la tua transitoria felicità e far sognare un popolo.

Facebooktwitterlinkedin