Alle Scuderie del Quirinale di Roma
Funambolo Memling
Quella che a Roma rende omaggio al grande fiammingo Hans Memling è una mostra da non perdere per capire come il Rinascimento sia un fenomeno europeo, non solo italiano
Per capire i motivi che fanno della mostra di Hans Memling, in scena fino al 18 gennaio alle Scuderie del Quirinale, evento da non perdere, bisogna partire dai titoli di coda. Da lì scopriamo che si tratta di un debutto assoluto: è la prima volta che in Italia si dedica una monografia a questo grande maestro fiammingo tra i più conosciuti e apprezzati all’epoca nel nostro paese, poi a lungo frainteso e declassato in ruolo da comprimario e solo da una trentina d’anni riconsacrato come una figura chiave del Rinascimento europeo. Da lì scopriamo che a favorire questa rivisitazione sono arrivate oltre trenta opere da musei e collezioni private di tutto il mondo. E che, a imprimere un sigillo di esperienza difficilmente ripetibile a questa operazione, alcuni di questi prestiti ricompongono nella loro perduta unità capolavori che erano stati smembrati e dispersi in varie sedi. Come il Trittico della Crocefissione di Jan Crabbe , rimontato con tasselli che provengono da Vicenza, da Bruges e da New York; o il Trittico Pacagnotti diviso fra Firenze e Londra.
Occhio ai nomi che accompagnano e battezzano queste tavole multiple a più scomparti o identificano i personaggi in posa nella straordinaria galleria di ritratti e dipinti devozionali che impreziosisce il percorso della mostra. Chiamano in scena i committenti. Banchieri, commercianti, intellettuali à la page come Pietro Bembo, borghesi in rapida ascesa: la classe agiata che gareggia in mecenatismo e prende il posto dell’aristocrazia, una rivoluzione che imprime una accelerazione decisiva alla produzione dell’arte e alla trasformazione della società postmedievale. Tra questi clienti e benefattori molti sono italiani. Fiorentini, genovesi, veneziani, che hanno scelto, per far fortuna, le Fiandre e Bruges, città d’elezione di Memling il quale, nato in Germania attorno al 1440, vi trascorre un trentennio fino alla morte nel 1494.
Si deve a loro se la fama di questo «pittore ponentino» – come lo battezza in gergo marinaro un cronista dell’epoca – valica le Alpi; se le sue opere riportate ed esposte al rientro nei salotti che contano accendono la fantasia dei grandi maestri di casa nostra; se le sue invenzioni iconografiche fanno scuola. L’inquadratura a tre quarti dei volti così carica d’espressione, così comunicativa rispetto alla postura frontale in uso da noi; l’irrompere del paesaggio dal vivo nel quadro ad aggiungere nuove connotazioni al ritratto; quelle mani incrociate o aperte giù in basso, così vicine a chi le osserva da aumentare la sensazione che il personaggio viva e respiri, entri nel mondo reale. Si deve a loro persino se la sua tecnica, la pittura ad olio, già conosciuta e apprezzata, anche attraverso altri maestri fiamminghi, come Christus, Van Eyck, van der Weyden, ma poco praticata altrove, apre nuovi orizzonti di ricerca, fa moda e tendenza: la vivacità dei colori e del segno, la possibilità di sfruttare al meglio trasparenze, velature, sfumature di toni. Se insomma tutte queste influenze contagiano artisti di prima grandezza come Botticelli e Ghirlandaio, spingono all’emulazione persino un genio assoluto come Leonardo. Cerchiamo di non essere sciovinisti, il Rinascimento non è un marchio doc, una griffe esclusiva del made in Italy, ma storia europea, un crogiuolo di scambi, esperimenti, intuizioni, fibrillazioni: ben venga questa mostra a ricordarcelo.
E ben vengano la biografia e i capolavori di Hans Memling a rendere evidente quanto la carriera e lo straordinario successo di questo pittore siano legati alla sua capacità di intercettare il gusto del mercato e il favore dei committenti. Memling dipinge a comando, si lascia imporre temi e formati dai suoi clienti, ne asseconda ambizioni e capricci, per battere la concorrenza e far circolare la sua firma, il nome della sua bottega, ma si garantisce così la libertà di una vita più che dignitosa: alla morte lascerà agli eredi tre case di proprietà e un bel gruzzolo di risparmi. E compensa questi condizionamenti senza imbrigliare il suo talento di grande narratore. Se in tanti lo cercano e accettano le sue quotazioni non è perché è un pittore famoso, accomodante e bendisposto, ma perché è un artista originale che garantisce raffinatezza e stupore.
Già, lo stupore. Non è difficile immaginare la compiaciuta sorpresa di Tommaso Portinari, fiorentino trapiantato a Bruges come direttore della banca della famiglia Medici, quando passò nel suo studio a ritirare il quadro che gli aveva ordinato. Voleva per la sua cappella privata una tavola di meditazione che condensasse tutte le tappe della Via Crucis ma non occupasse troppo spazio, apparisse troppo imponente e pretenziosa come gli enormi trittici che Memling aveva dipinto per altre altolocate famiglie, o troppo leziosa e imprecisa come tante miniature allora in circolazione. Trovasse lui il modo. E il modo con cui Memling vinse la sfida è un guizzo di pura genialità. Fermatevi davanti a quel quadro, datato 1470 e prestato dalla Galleria Sabauda, cui è pervenuto dopo molte peripezie, è esposto su una delle pareti che chiudono l’imbuto del primo piano. Guardatelo bene: l’illuminazione è un po’ fioca, ci si arriva di fronte frastornati da altri dipinti dai colori più vivaci, più grandi, meglio impaginati, forse più belli. La prima sensazione è di sovraccarico, di spaesamento, di caos. In ogni stazione della Passione si addensano capannelli di folla, si respira concitazione, il calore, la tensione dei corpi ammassati, la figura del Cristo quasi scompare in quel groviglio claustrofobico di membra, di teste. Il supplizio è spettacolo pubblico di odio, furore cieco, pietà. E lui – ci ricorda Memling – è Uomo tra gli uomini in quel momento, tanto da chiedere al Padre perché l’ha abbandonato. Si avvertono gli echi del caos e della ressa che accompagnavano i cortei in costume, i teatrini viventi con cui a Bruges si era soliti evocare nella vigilia di Pasqua il martirio del figlio di Dio: Memling vi ha sicuramente partecipato, ne ricostruisce l’atmosfera con grande realismo, vuole che ci sentiamo spettatori e attori di quell’infamia. La città è invece una ricostruzione di fantasia, un susseguirsi di palcoscenici e di quinte: Memling non è mai stato a Gerusalemme, ma ci vien da pensare che qualcuno che l’ha vista gliel’abbia descritta. Non una città maestosa e turrita come l’ha sublimata l’immaginario dell’Occidente devoto, ma un paesone intasato di stradine tortuose ed anguste, come appare ancor oggi il suo centro storico, dove anche lo svolgimento della tragedia lungo la Via Dolorosa si accavalla e s’ingolfa in poche centinaia di metri.
Fin qui è teatro: i sipari posticci, la coreografia delle masse, l’unità di tempo e di luogo della rappresentazione, i cambi di scena simulati e veloci per non interrompere la tensione. Ma Memling ci regala in questo quadro anche una profezia di cinema. Un film girato in piano sequenza, rinunciando al montaggio. Un colpaccio da grande direttore della fotografia. Fate caso alla luce, si sposta col mutar dell’azione, disegnando il passar delle ore. Il prologo della Passione è un’ombra da effetto notte: l’ultima cena, la preghiera nell’orto di Getsemani, il tradimento di Giuda e la consegna agli sbirri sono avvolti nel buio, confinati sul lato sinistro della tavola. Il giudizio, le torture, la salita al Calvario si consumano invece nel chiarore in progressione del giorno, ma è una luce zoomata, artificiale, da riflettori puntati. E infine l’ombra livida della sera che torna a incorniciare i tre crocifissi su in alto e poi il misterioso squarcio luminoso della Resurrezione. Che intensità da funambolo. Accanto sono esposti a confronto altri due dipinti d’imitazione, la differenza balza agli occhi.
A rendere unico Hans Memling è una cifra originale da romanziere e inventore di linguaggi, che ripartendo da quest’opera, ritroverete in tutte le altre sgranate lungo il percorso. E potrete mettere a confronto con i lavori di altri artisti coevi. Nei ritratti, nelle piccole tavole devozionali, nelle pale d’altare, nei grandi trittici ricomposti per l’occasione. Nella multivisione che cerca di attenuare il rimpianto per un capolavoro d’eccezione, mancato purtroppo all’appello: quel trittico del Giudizio universale rimasto a Danzica per un’impuntatura politica che ha cancellato in extremis un atto di risarcimento dovuto. Già, perché quell’opera, comprata da un italiano e destinata all’Italia, fu intercettata e razziata durante il trasporto da un vascello di pirati del mare del Nord.