Alessandro Boschi
Visioni contromano

Il Pasolini dimezzato

A Venezia il film di Abel Ferrara su Pasolini ci aveva lasciato molti, troppi dubbi. La visione della versione doppiata ce li ha confermati: un'opera confusa, non all'altezza del modello cui vorrebbe rendere omaggio

La più importante emanazione di un film sembra essere talvolta la capacità di innescare dibattiti, di dividere, di dilatare il terreno, in questo caso piuttosto esiguo, di discussione. Ci riferiamo a Pasolini di Abel Ferrara, del quale abbiamo già parlato nelle nostre corrispondenze veneziane. In maniera, a dire il vero, alquanto sbrigativa. Il film non ci era piaciuto allora, e non ci è piaciuto nemmeno adesso in questa versione doppiata, appena uscita nelle nostre sale, che consegna la voce dello scrittore al bravo Fabrizio Gifuni. Non ci sembrava, insomma, che meritasse troppa attenzione, anche per una forma di rispetto nei confronti di un regista geniale che in un passato nemmeno troppo lontano ci ha regalato film splendidi nella loro feroce rappresentazione di peccato, tradimento, redenzione, specchio di un reale talmente reale da conferire al reale stesso uno stacco onirico sospeso sulle porte dell’inferno più profondo. Con uno stile inconfondibile, disturbante nelle sue declinazioni più estreme. Ricordiamo ancora i turbamenti causati da Il cattivo tenente, forse il suo film migliore curiosamente non scritto da Nicholas St. John, suo sceneggiatore di fiducia. Affermò che il film affrontava argomenti “troppo grossi”, e non se la sentiva. Come non c’è naturalmente nemmeno in questo Pasolini, Nicholas St. John, sostituito dal “nostro” Maurizio Braucci.

Si è molto parlato del curioso uso della lingua inglese che si fa nella pellicola. E naturalmente ci si è buttati a capofitto nelle interpretazioni più estreme, sempre con l’intenzione malcelata di vedere ciò che gli altri non hanno visto. E che in realtà, apprendiamo dallo stesso Ferrara, non c’è. Per il semplice fatto che egli dichiara candidamente di avere letto tutti i più grandi autori, russi, cecoslovacchi, francesi, italiani, in lingua inglese. Essendo Pasolini scrittore italiano, il sillogismo ci porta che anche Pasolini è stato letto da Ferrara in lingua inglese. Ergo, è stata una scelta di comodo, perché come il protagonista Willem Dafoe ha dichiarato: l’importante era “abitare” i pensieri di Pasolini, prescindendo dalla lingua usata. E soprattutto capendo alla perfezione di cosa si trattasse. In verità la risposta di Dafoe (a Hollywood Party, Radio3) è stata più articolata, egli infatti ammette che l’uso di lingue diverse rendeva bene l’inquietudine sociale di Pasolini, che nella stessa giornata si esprimeva in friulano con la mamma, in dialetto con i ragazzi di borgata e magari in francese con gli amici intellettuali. Il film è stato girato in entrambe le lingue, poi il regista ha optato per il mix per il motivo appena esposto.  Ma allora non si capisce perché in una scena domestica in cui tutti i personaggi sono italiani si parla solo in inglese. Qualcosa non torna, ma non è grave.

pasolini dafoe«Ho letto Pasolini in inglese perché non potevo permettermi di non capirlo, e cosi pure Willem». Ferrara dixit. L’importante, raccomandazione questa fatta anche a Gifuni, era cercare il Pasolini dentro noi stessi.  Questo per il noto sistema dei vasi comunicanti ci fa tornare alla mente un racconto di Paolo Ferrari, ai tempi in cui venne chiamato da Pasolini stesso a doppiare Franco Citti in Accattone. «Andai  in studio con fare piuttosto arrogante, ero giovane e stupido. Feci la stessa scena per quattro, cinque volte. Poi, insofferente, chiesi per quanto avrei dovuto continuare. Pasolini, mite come sempre, mi chiamò in regia e mi fece ascoltare la terza registrazione: ecco, mi disse, qui lei è “dentro” al personaggio. Fu una illuminazione, aveva capito tutto e soprattutto lo aveva fatto capire a me. Se è d’accordo può cominciare anche domani, mi disse». Se c’è una cosa che il Pasolini di Ferrara riesce in qualche maniera a comunicare è proprio la mitezza di Pasolini, l’amore per la dimensione domestica, per la madre. Tutte cose che, a pensarci bene, in pochi conoscono, proprio perché domestiche e quindi private.

C’è molto di sperimentale in questo film? Mah, secondo noi sperimentale è un termine perfetto per mascherare un’audacia creativa priva di estro e di talento visionario. Molte, troppe scene del film sono sciatte, alcune imbarazzanti, altre incredibili nell’accezione più possibilista del termine. Da un film si può prendere anche quel poco che c’è di buono, come in questo caso. Avremmo preferito una interpretazione del personaggio ancora più estrema, più spregiudicata, ma abbiamo capito che da parte del regista c’è un rispetto assoluto del personaggio, e questo deve averglielo in qualche modo impedito.

C’è un episodio di Tex, il numero 60 crediamo, intitolato El Rey. Alla fine come si sa i cattivi contro Tex Willer perdono sempre. E spesso fanno una brutta fine. In questo caso finiscono dritti nelle fauci di affamatissimi pescecani perché qualcuno (Tex stesso ma non ci giureremmo) ha tolto un tassello dal fondo di una piccola barca, facendola così affondare miseramente: «Se una barca ha un foro è solo un ammasso inutile di legname». Tex dixit. Qui di fori – nel senso di cose non riuscite – ce ne sono tante, troppe, e la barca affonda miseramente. Un’opera, una volta licenziata dall’artista, diventa un corpo a sé, vive di vita propria. E nessuno può stabilire criteri assoluti. Ma è un fatto che come al solito un film diventi due film, quello che è e quello che vorremmo fosse. Per questo a noi dispiace per Ferrara, molto, ma soprattutto per Pasolini.

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