Una vicenda brutta, tra calcio e misteri
Depistaggio in campo
Un nuovo libro ritorna sulla drammatica storia di Denis Bergamini, il calciatore del Cosenza ucciso nel 1989. Ma tutti allora, Procura e forze dell'ordine per prime, insabbiarono il caso parlando solo di suicidio
Anche il calcio ha il suo buco nero, un altro dei tanti misteri italiani. E, come tutte le nostre brutte storie, anche questa è fatta di depistaggi, indagini sbrigative, malagiustizia. Una storia che puzza di malavita influente e scaltra e che si poggia sull’omertà di molti. Omertà non sempre significa paura, a volte vuol dire acquiescenza, complicità, tacita intesa. E non appartiene sempre alla gente. Più spesso promana, come abbiamo imparato in questi anni, da ambienti insospettabili, a volte basta una telefonata, un invito a chiudere gli occhi, a tralasciare un indizio.
Il caso Bergamini forse è stato anche tutto questo, o piuttosto è stato semplicemente una storiaccia di periferia, con qualche donna di mezzo e qualche grammo di cocaina. Chissà. Di certo della morte violenta di Denis Bergamini, una vita spezzata a 27 anni, non se ne è venuti ancora a capo dopo 25 anni.
Eppure una soluzione sembrava certa a magistrati e carabinieri già nelle ore successive la morte: il biondino che giocava nel Cosenza si era ammazzato buttandosi sotto un camion su una stradaccia che parte da Reggio Calabria e finisce a Taranto, la statale 106 Jonica, un serpentone d’asfalto dove bisogna farsi il segno della croce prima di percorrerla. Sicurissimi pretori e poi giudici di Corte d’appello quando agli inizi degli anni Novanta assolsero dall’accusa di omicidio colposo il camionista che avrebbe investito Bergamini quel maledetto giorno, il 18 novembre del 1989. Questo è l’unico verdetto emesso sulla vicenda che riconosceva la tesi che il giovane di Argenta, nel Ferrarese, si sarebbe addirittura «tuffato» sotto il camion. Ma i familiari del calciatore non si sono arresi ed hanno affidato quattro anni orsono a un avvocato, Eugenio Gallerani, una sorta di controinchiesta che ha prodotto, nel giugno del 2011, la riapertura delle indagini da parte della Procura di Castrovillari. Una perizia affidata ai Ris di Messina ha stabilito nel febbraio 2012 un caposaldo nel giallo: Bergamini non si è suicidato. Due anni dopo, nel maggio del 2013, venne emesso dalla stessa Procura un avviso di garanzia nei confronti di Isabella Internò, l’ex fidanzata del giocatore e testimone del fatto: concorso in omicidio volontario, il capo d’accusa. Un altro indagato fu il camionista di quel camion Fiat Iveco 180 NC rosso, Giuseppe Pisano, per false informazioni al pm e favoreggiamento di ignoti (reato prescritto, peraltro). Adesso, tra la fine di settembre ed il mese di ottobre, si aspettano le decisioni dei magistrati di Castrovillari: il rinvio o meno a giudizio degli indagati.
Le ultime puntate di questa atroce storia sembrano dar ragione dunque a chi da sempre sostiene che Denis Bergamini venne ucciso e che il ritrovamento del cadavere sulla statale Jonica, l’impatto con il grosso automezzo che trasportava mandarini che avrebbe dovuto dimostrare il suicidio, facessero parte di una messinscena per coprire il delitto. Ne parlava già Carlo Petrini, a modo suo, nel Calciatore suicidato, un libro del 2001.
Ma perché Bergamini fu eliminato? È una domanda a cui non si trova ancora una risposta. Non l’hanno trovata gli inquirenti, quelli che solo negli ultimi anni si sono messi a lavorare seriamente al caso, non l’hanno trovata i tanti giornalisti che si sono occupati della vicenda. Non si trova nel libro che è in uscita nelle librerie: Denis Bergamini. Una storia sbagliata di Alessandro Mastroluca, edito da Ultra Sport (189 pagine, 16,00 euro), presentato a Cosenza, città che non si è mai staccata da quel giovane piccolo ed esile, che giocava al centro del campo, arrivato in Calabria dalle rive del Po e che rese felice un popolo di tifosi (giocò per quattro stagioni con la maglia rossoblu) che hanno continuato, come i familiari della vittima, a chiedere la verità. Mastroluca, 30 anni, un freelance che si è molto occupato di sport e in particolare di tennis (è sua una biografia su Arthur Ashe), ha raccolto articoli e documenti su quella strana morte. Un lavoro che ripercorre le tappe di una vicenda anch’essa esemplare nella galleria dei grandi misteri italiani: dalle stragi agli assassinii di persone scomode, dai delitti mai risolti alle scomparse misteriose. E tuttavia Mastroluca nelle pagine iniziali del libro coglie una differenza. Mentre nei tanti misteri di cui è costellata la storia più recente del nostro Paese è sempre intervenuta «una mano più o meno invisibile… per sottrarre prove, per togliere qualche pezzo del puzzle e impedire che si potesse ricostruire il disegno, che si potesse arrivare alla verità…» (da piazza Fontana all’omicidio di Mauro Rostagno, dall’uccisione di Ilaria Alpi a quella del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, fino all’agenda rossa di Borsellino), nel delitto di Bergamini non sono state sottratte prove (a parte gli abiti che il giovane indossava quando fu “investito”). «Viene direttamente deviata l’inchiesta su un binario morto» scrive l’autore.
Infatti, come più volte è stato sottolineato e denunciato, i carabinieri si accontentano delle testimonianze dei due testimoni, la fidanzata e il camionista; non fanno indagini sull’auto che portò Bergamini a Roseto Capo Spulico, il luogo sulla Jonica dove avvenne il l’”incidente” o la rappresentazione di una morte sopraggiunta altrove, la famosa Maserati che si pensava nascondesse doppifondi per trasportare droga; i magistrati ordinano un’autopsia quasi due mesi dopo il fatto, non verificano le circostanze descritte dai pochi testimoni, non accertano la presenza di un misterioso personaggio, non si interrogano sulle smagliature di certe testimonianze, né accertano con esattezza l’ora della morte. E tantomeno tengono conto dell’autopsia che già diceva tutto o quasi. Un esame eseguito dal professor Avato, il quale non aveva riscontrato fratture su un corpo che, secondo camionista e fidanzata, sarebbe stato trascinato per circa 50 metri, escludendo in pratica la tesi del suicidio. I nuovi periti a cui qualche anno fa è stata affidata una nuova indagine hanno detto: «Nessuno ha mai letto bene quella perizia».
Le cose strane attorno alla fine di Denis sono tante, troppe. Anche dopo la morte. Succede ad esempio che un giornalista del Quotidiano della Calabria (è il giornale che più si è occupato della vicenda negli ultimi anni e che di recente ha denunciato gli “inchini” durante le processioni), Francesco Mollo, che viene spesso citato nel libro di Mastroluca, scopra nel dicembre 2011 che Raffaele Pisano, il conducente del camion, era vivo e vegeto, e faceva vita da pensionato a Rosarno. Ma tutti invece, compresi i magistrati, lo consideravano morto. Curioso assai…
Tante le ipotesi fatte sul perché il giovane emiliano fu ucciso: dalla droga alle scommesse del totonero, dal delitto passionale allo sgarbo a qualche mafioso. Probabilmente Bergamini era una persona di una ingenuità spaventosa, un ragazzo semplice che prima di trasferirsi in Calabria aveva vissuto tra le pareti domestiche, in una casa e in un posto tranquilli. All’improvviso si è trovato in un’altra realtà, lui al centro dell’attenzione, bello e conteso dalle ragazze, idolatrato dalla tifoseria. Era arrivato quando il Cosenza era in C1, l’aveva portato in B, molte società di serie A, tra cui il Parma, gli offrivano contratti. I suoi allenatori (Di Marzio, Simoni) raccontano che fosse un professionista scrupoloso. Si dice che era ritenuto talmente affidabile che venne messo in stanza con Michele Padovano, l’attaccante della Juve di Lippi, condannato qualche anno fa per traffico di droga, che invece aveva una esistenza irrequieta. Un tipo tranquillo, Denis, in grado di controllare il compagno. Domizio Bergamini, il padre di Denis, ha sempre sostenuto che Padovano sappia molte cose sulla fine di suo figlio ma che non ha voluto dirle.
Il centrocampista di Argenta però era anche uno che non sapeva dire di no e qualcuno lo potrebbe aver sfruttato per qualche storia poco pulita, senza che il giovane all’inizio se ne accorgesse. Poi c’è Il rapporto con le donne e con Isabella Internò, l’ex fidanzata ora accusata di concorso in omicidio: un altro dei punti chiave della vicenda. Tra i due nacque una relazione burrascosa, fatta di alti e bassi, di passione e rotture. Lei giovanissima volle abortire di nascosto dalla famiglia. Può darsi, si dice anche, che abbiano voluto far pagare a Denis il disonore arrecato alla donna. Ma ancora oggi, davanti ai magistrati di Castrovillari, la signora Internò, che è sposata con un funzionario di polizia, continua a sostenere che le cose andarono come ha sempre detto, fin da quando gridò al conducente del camion: «È il mio ragazzo, si è voluto suicidare».
Nel Cosenza Calcio dell’epoca – siamo a metà degli anni Ottanta – gravitavano personaggi ambigui, dirigenti con legami di parentela con malavitosi e ‘ndranghetisti: c’è chi ricorda, ad esempio, come la squadra andasse a giocare in periferia, nei territori di certi capibastone per festeggiare vittorie o semplicemente per allenarsi. Forse fu un sentimento di pietà, forse no, ma la società consigliò alla famiglia di non fare l’autopsia sul quel corpo, e premeva affinché quell’indagine si chiudesse rapidamente. Persino Aldo Biscardi nel suo Processo, andato in onda il lunedì 20, due giorni dopo la morte, chiedeva ad Emanuele Giacoia, il noto giornalista sportivo della Rai, uno dei protagonisti di 90° Minuto, il perché di tanta fretta e perché si parlasse di suicidio e si scartassero altre ipotesi: «Così sostiene la Procura: si parla solo di suicidio», fu la risposta.
Ma Denis Bergamini non pensò mai di uccidersi. Ci sono tante piccole cose che dicono che aveva voglia di vivere. Era rimasto turbato da alcune telefonate negli ultimi giorni di vita. Ma quel gesto estremo, no, proprio non ci pensava. D’altronde, indagini più accurate ma lontane rispetto ai fatti hanno detto altro: Bergamini fu ucciso un sabato, alla vigilia di una partita che aveva preparato con allenatore e compagni, in un giorno di pioggia e di tristezza.