A un anno dalla morte
Per non dimenticare Seamus Heaney
Cronaca di un incontro a Bologna, commovente ed emozionante, tra un giovane poeta e il suo Virgilio, il premio Nobel irlandese, poeta della vanga e dello scavo, attratto dal richiamo metafisico dell’oltre
Un anno fa moriva il poeta irlandese Seamus Heaney, premio Nobel nel 1995. Vorrei tenere viva la memoria ricordando l’incontro che ho avuto con lui a Bologna nell’aprile 2012. Piazza Maggiore è ferita da un tenue scroscio di pioggia-lama. La taglio in due, seguendo l’indicazione del braccio sinistro di un grosso crocifisso non intarsiato e color crema. Ecco – colgo lo svincolo madornale – ecco, una piccola piazzetta, un piccolo albergo, una minuscola entrata a zig-zag. Per un grande uomo.
«Sono in anticipo di un quarto d’ora»rimugino, traballante.
Panacea di tutte le puntualità è la sigaretta. La fumo con l’acqua alle tempie, il grigio alle spalle. Fatto ciò (considerato che il vento burlone chiede sempre due tiri), leggo l’ora e non sono passati più di sette, sciocchi, minuti.
Cammino su e giù. Grigio che non vuole diventare azzurro. Inferriate umide di ruggine. Improbabili luccichii dal fondo della via. Cammino ancora. Poi: trovo il coraggio lancinante di ventenne, entro nell’albergo, guardo la reception, getto in pasto al sorriso smagliante dell’uomo inamidato il ridicolo «dovrei incontrare il poeta Seamus Heaney», mi risponde «è in camera, s’accomodi al primo piano» e, in un balzo, son di sopra, – la poltrona mi chiama, ineluttabile, piantato, in tiepida attesa.
La professoressa Morisco, correlatrice all’epoca della discussione ‘triennale’, doveva far gentilmente da interprete al convegno raffazzonato, perché la mia demenza linguistica era pressoché imbarazzante, ai limiti del sopportabile. Una stolidità rara. D’improvviso si ode scoccare l’ascensore (dlin dlon) e un omone canuto mi saluta, lieto: il Maestro è arrivato. Parbleu, cosa biascico? Siede al mio fianco, sul grande divano marrone in mogano. Farfuglio qualcosa, porgendogli una poesia che avevo scritto su di lui e nella quale figurano tre o quattro versi in gaelico (messi insieme non so come, non so perché).
«Very good, very good…», pare davvero contento e legge ad alta voce, traducendo simultaneamente dal gaelico, lingua d’origine, all’inglese, lingua dei padroni. Intanto giunge, salvifica, la Morisco: rompe la lastra di ghiaccio infilzata nel mio cranio. Parliamo. Porgo domande su Virgilio, egli risponde affabile ma a fatica, perché l’ictus lo fa ancora tremare.
«Il mio rapporto col poeta mantovano è tratteggiato da numerose consonanze biografiche, che hanno reso personalissimo l’incontro. L’esilio, la violenza, il senso della Storia, l’Arcadia. E poi la tenerezza della nascita di un puer e la correlata aspettativa politica».
Si parla di Dio, della trascendenza. Di quel lasciare-andare di una sua bellissima lirica, che affronta la morte a occhi sinceri: un’acconsentire al trapasso estremo in maniera davvero umanissima.
«È una forma di poesia – spiega – che cerca di uscire da qualsiasi forza la tenga bloccata e prigioniera».
Heaney pare certamente attratto dal richiamo metafisico dell’oltre, quella «polvere della sorgente esausta» mossa da un Gesù redivivo e rinnovato, amato e mai rinnegato, ma decenni di violenza e di guerra civile in Irlanda non possono non lasciare una macchia indelebile e una certa delicatezza (delicatezza verso quei morti da lui cantati in Station Island) nel professarsi dell’una o dell’altra fede.
«Si finisce per essere tutti protestanti, allora!» sorride amaro; e questo pudore, questo garbo tacito lo sprofonda in un sospiro. Lungo come la canna di una pistola puntata sul collo.
Gli chiedo, infine, quale sia la destinazione ultima della sua opera.
«I don’t know!» risponde schietto – è l’unica frase che mi sembra di capire senza l’accenno d’una qualche traduzione – e mi chiede quale sia per me. Gli parlo di profezie, ritorni donneschi, virgiliane rimembranze. Muove la testa in cenno d’assenso, e ricorda però di non dimenticare vicende più pragmatiche, da buon figlio dello spazio rurale irlandese.
Il dialogo a tre prosegue fino alla sua fine. È già il tempo caro (a caro prezzo) dei convenevoli. Gli intimo di firmare il libro del pungolo e della ferita metafisica; affermo che nella nostra famiglia egli è molto popolare, simile a una celebrata rock-star. Con firma tremante la mano forse più incisiva al mondo – se è vero che ogni epoca è l’epoca in cui brucia la parola di un tale poeta – solca il frontespizio e il mio umore rinato.
In modo del tutto inaspettato, non riflettuto, Zio Seamus mi chiede una dedica alla poesia dei tre o quattro versi gaelici. Paradossale, penso. Già l’onore di sedergli accanto ed essere una specie di nipote acquisito e adesso… mi tocca anche firmare un autografo al Premio Nobel dei miei desideri, il poeta della vanga e dello scavo, Virgilio dell’anima, maestro di vita, o semplicemente: Maestro.
Io, ventitreenne meridionale, conosciuto Heaney, salutato, baciato, visto il tremore di mani che entreranno nella Storia, conversato, capito la sua poesia, le sue tribolazioni, la speranza che la parola del Vangelo dia l’ultima energia alla polvere della fonte inesausta, insomma io, davvero Felix (per adoprare un epiteto da imperatore romano), io, io cosa cerco ancora?
Esco dall’albergo, giro l’angolo, aspetto. Panacea di tutte le attese è la sigaretta. Accesa, bagnata nella riga tra l’indice e il medio. Esce la combriccola: Heaney parlotta con la Morisco, la moglie Marie è a braccetto con un’altra donna dal portamento anglosassone (come potrebbe essere diversamente, d’altronde). La pioggia mi ferisce gli occhi di commozione, mentre tagliano in due Piazza Maggiore, senza seguire nessun braccio del crocifisso. E spariscono nella bruma. Non pioggia normale, ma pioggia-lama. Che il cuore mi taglia, per sempre.