Un saggio pubblicato da Einaudi
Il segreto di Dumas
Julie Kavanagh ha indagato nelle vera vita della "signora delle camelie". E ha scoperto una provinciale scesa a Parigi per conquistarla. Proposito riuscito, tra un letto e l'altro
Veniva dalla campagna della Normandia la seducente e giovanissima cortigiana più ammirata della Francia di metà Ottocento. Prima di sbarcare nella tanto sognata Parigi per diventare modello di eleganza e savoir-faire, quella “Pretty Woman” che in poco tempo imparò a leggere e a scegliere i classici da cui assorbire quella polvere di cultura che le servì a barcamenarsi in salotti frequentati da Balzac, Thakeray, Dickens List e tanti altri maitre-a-penser, era, al suo paese, una ragazzetta magra, volitiva fino a essere sfacciata, affascinata dall’aristocrazia del denaro, del potere e della cipria (ossessione della madre Marie), che non sapeva leggere, ma era ben conscia delle sue doti naturali: la propensione disinvolta al sesso e un innato gusto per gli abiti. Suo padre, Marin, era ambulante violento e sempre a corto di soldi, ma anche uno sciupa femmine che dosava bene l’indubbio suo fascino, sia pur rozzo. Così stravagante e vizioso da alimentare le voci di una storia incestuosa con la figlia, certamente dotata di pochi freni morali. Ma in quella confusione squallidamente rurale, pare non fosse un’eccezione.
La dama che divenne in pochi anni profumato e delizioso baricentro del demi-monde parigino era proprio lei, Alphonsine Duplessis, nota a tutti come “La signora delle camelie”. Il nomignolo floreale derivò dalla sua perenne abitudine di presentarsi in società con alcune camelie vezzosamente intrecciate nella folta capigliatura bruna. Come si direbbe oggi, Alphonsine faceva tendenza. Anche per i morbidi scialli di cachemire e i suoi virginali abiti bianchi astutamente poco scollati così da capovolgere una moda ostentatamente seducente, quindi omologata. Furbizia eccelsa: tra tanti seni al limite della nudità, gli uomini preferivano immaginare quelli della normanna, snella e poco formosa. L’ex fanciulla in fiore che sgambettava nei piccoli villaggi a piedi nudi o con scarpette impolverate o schizzate di fango, sperimentava la sua naturale quanto esplosiva carica sessuale. Cercava piacere e anche la propria identità, sapendo in cuor suo che il palcoscenico del suo destino doveva essere Parigi. Solo Parigi.
Conobbe Alexandre Dumas (nella foto sopra), l’osannato autore de I tre moschettieri e notabile delle lettere francesi. Ma di lei si innamorò pazzamente l’omonimo figlio (1802-1870). La relazione durò un anno. Il giovane Alexandre, a 24 anni, scrisse un libro che gli fruttò fama e soldi, La signora delle camelie, appunto. Superando una volta per tutte il timore reverenziale (che poteva diventare castrante) verso cotanto padre. Confidò a un amico: «Sarei morto di vergogna e gelosia se non fossi riuscito a conquistare un po’ di gloria tutta per me». Non a caso il suo esordio fu un fallimento.
Di pura invenzione era la donna affascinante e travagliata, prima scostumata eroina e poi una santa e martire? Per nulla: la sua dama di carta non era altro che Alphonsine Duplessis, già sua compagna di letto e poi amica da dissezionare in modo quasi giornalistico, fino a trasformarla in un prototipo sociale di quell’epoca. Ne narra la vicenda Julie Kavanagh ne La ragazza delle camelie (Einaudi, 201 pagine, 19,50 euro). Quindi nessuna o quasi fantasia nel delineare la vita breve di quell’amabile arrampicatrice sociale, ribattezzata Marguerite Gautier. Alexandre, così come il pubblico, sostiene la Kavanagh, «lessero la finzione come fosse realtà». Sì, perché quello era il mondo di Parigi, che mischiava eleganza a oscenità, rigore classista e piacere della trasgressione, lusso e altalenanti miserie.
Il romanzo di Alexandre fu stampato a spese del padre. Passò inosservato finché una casa editrice di buona fama, la “Cadot”, ne comprò i diritti dando all’autore un anticipo di mille franchi. Ottime vendite. Ci vollero tre anni per convincere un impresario a metterlo in scena, malgrado il suo celeberrimo cognome. Il copione fu accettato dal nuovo direttore del Vaudeville, dopo il rifiuto da parte di alcuni suoi colleghi, terrorizzati dall’idea di far scandalo. Detto e fatto? Per niente. La censura bloccò la rappresentazione. A far cadere il veto fu Luigi Napoleone, che nel dicembre 1851 diventò presidente della seconda repubblica. Ci fu però lo zampino del vecchio Dumas, amico del fratellastro duca di Morny. «Con i cinque atti della Signora delle camelie – scrive Julie Kavanagh – vennero squadernati davanti agli occhi della società civile i sordidi dettagli della vita di una prostituta».
Fu un enorme successo. Alla prima un’ovazione assordante. Duecento repliche, carrozze che bloccavano il traffico. Commentò Henry James: «Fu la prima volta che sentii parlare della necessità di fornirsi di fazzoletti da tasca per un dramma». Nel 1852 su un palco si trovava Giuseppe Verdi assieme alla sua amante Giuseppina Strepponi. Di qui l’idea della sua grande opera: La traviata. Incentrata sulla triade “Amore-Sacrificio-Morte”. Anche il cinema si appropriò del tema con nove film (accanto al titolo, la celebre versione muta del 1915 con Francesca Bertini protagonista; qui sotto, nell’interpretazione teatrale di Sarah Bernhardt).
Torniamo ad Alphonsine a Parigi. Dopo svariate polissonerie (scappatelle sessuali), i suoi primi amici furono gli studenti, molti dei quali, si portavano in soffitta, nei pressi della Sorbona, ragazze senza meta, le “facili”. Si trattava di femmine vaganti e stravaganti, dette anche “le sdraiate”, nel Quartiere Latino, a quei tempi un po’ appartato a confronto del brulichio turistico-mondano di oggi. Era il verace mondo della bohème. Pare che Alphonsine, spinta dalla fame, s’intrufolò nell’alloggetto di un giovane chiamato Henry: la sua prima esperienza con un universitario. Molte ragazze come lei – che cambiò nome in Marie confidando in una sorta di metamorfosi – erano apprendiste sarte o lavoravano in fabbrica. Le avevano affibbiato l’appellativo di grisette, nome che proviene dal tessuto grigio, gris de serge, delle operaie sessualmente disinibite. Poi le grisette (che troviamo anche nei Misteri di Parigi di Eugène Sue), con gli anni divennero le muse dei poeti, modelle dei pittori. A Parigi esistevano inoltre molte sartorie “di facciata” gestite da sarte-mezzane che avviavano alla prostituzione le ragazze giunte dalla campagna. Ma la grisette Alphonsine si tramutò in una lorette (in ricordo di Notre-Dame-de-Lorette (descritta da Dumas padre), intenta a procacciarsi un amante fisso con un buon patrimonio.
E Alphonsine-Marie non smetterà mai di snidare i nobili, sfidando le loro famiglie, refrattarie ai legami sentimentali dei loro rampolli con le prostitute o le ex “sdraiate”. Marie non smetteva di cacciare: voleva una solida posizione sociale e, perché no?, anche l’amore romantico. «Senza amanti – scrisse Dumas – il tedio la uccideva». Balzac vedeva in lei «una provocazione calcolata»: Marie incarnava alla perfezione le fanciulle delicate e apparentemente perbene che rallegravano lo scenario orgiastico del suo romanzo La pelle di zigrino. Scrisse: «…le vergini di facciata … che si avvolgevano in un mantello di virtù per dare più fascino e pepe alle concessioni del vizio».
Divenne per vie non proprio ufficiali nobildonna, ma gli ultimi mesi di questa femme fatale furono di solitudine, amarezza e difficoltà economiche malgrado quel lusso di cui ormai non poteva più fare a meno. Fu aggredita dalla tisi. Pochi giorni dalla sua scomparsa, a soli 23 anni, si esibì in un ballo drammaticamente frenetico. Morì nella penombra della sua stanza da letto, stringendo la mano della cameriera. Per strada c’erano alcuni creditori mentre gli ufficiali giudiziari bussavano alla porta del suo grazioso alloggio.