Cartolina dagli States
Shakespeare, l’americano
Una raccolta di saggi su Shakespeare negli Usa, con la dotta prefazione di Bill Clinton, spiega come e perché il grande poeta inglese sia considerato patrimonio amercano
Durante questa estate rovente in cui l’America brucia tra le fiamme dei disordini razziali che ancora non accennano a sopirsi, un volume su Shakespeare uscito alcuni mesi negli Stati Uniti fa ancora discutere. Il libro curato da James Shapiro, Shakespeare in America. An Anthology from the Revolution to Now, oltre ad un’insolita prefazione di Bill Clinton contiene saggi di noti scrittori americani, sceneggiatori, registi teatrali e cinematografici di ieri e di oggi. Il suo curatore afferma che «la storia di Shakespeare in America è anche la storia dell’America stessa» dal 1776 fino ai giorni nostri. Così, mentre gli americani dichiaravano la loro indipendenza dall’Inghilterra, non altrettanto facevano dal suo più grande artista. «Fin dalla fondazione del nostro paese, Shakespeare è stato una parte centrale, ineludibile della nostra eredità letteraria» scrive il curatore.
Una figura così riverita che, come Alexis de Tocqueville ha notato nel 1830, «a fatica si poteva trovare una capanna di pionieri che non ne possedesse almeno un volume o due». In particolare per circa due secoli le sue opere sono state come un prisma attraverso il quale certi problemi strutturali dell’America – la rivoluzione, la schiavitù, la giustizia sociale – venivano rifratti, discussi, dibattuti. Gli americani costantemente citano, parafrasano, re-immaginano Shakespeare.
Shapiro ricostruisce la ricca e sorprendente storia di come gli americani hanno “americanizzato” Shakespeare attraverso un’ampia gamma di generi: poesia, fiction saggistica, sceneggiature, memoir, musica, discorsi politici, lettere, film, recensioni, lavori teatrali. Che in maggioranza comprendono famosi scrittori americani. Questi includono Emerson, Hawthorne, Poe, Melville, Twain, Dickinson, James, Asimov e la poetessa Adrienne Rich. Presidenti americani come John Adams o Bill Clinton offrono le loro testimonianze della profonda influenza che Shakespeare ha avuto sull’America. Clinton addirittura ricorda di avere imparato a memoria, quando ancora andava a scuola, come allora si usava, circa 100 versi del Macbeth e di avere citato Shakespeare in occasioni importanti, perché come nessun altro è capace di rappresentare l’intensità del dolore. Come quando ha dovuto pronunciare il discorso funebre dell’amico Rabin. Ma ci sono anche gli artisti di West Side Story che ricordano l’influenza shakespeariana. E poi Orson Welles e Marlon Brando che parlano della loro reinterpretazione di Macbeth o di Giulio Cesare.
È interessante sottolineare, ci ricorda Shapiro, che Shakespeare pur non avendo mai toccato i lidi americani è tuttavia divenuto il poeta nazionale più amato e celebrato. Anche se le scelte di alcuni dei suoi protagonisti e delle sue storie in terra americana apparirebbero oggi difficilmente accettabili . Così qualcuno ricorda che forse oggi il suo Otello nero uxoricida sarebbe molto controverso, mentre il suo Shylock nel Mercante di Venezia che pretende la libbra di carne riproduce uno degli stereotipi più abusati sugli ebrei. Ed è proprio sull’Otello che si concentrano la maggior parte dei saggi. E pertanto per rimanere sul tema che da più di due secoli ha torturato e continua a torturare l’America dei nostri giorni, il razzismo, è proprio il principe nero che accende le polemiche. Il nord e il sud, ovviamente, lo interpretano diversamente. Così Mary Preston, simpatizzante delle truppe sudiste afferma che Otello, proprio perché era così perfetto, non poteva essere nero, «doveva assolutamente essere bianco». Maya Angelou poetessa nera contemporanea afferma invece che «Shakespeare era una donna nera». Ma, come asserisce il New York Times, «chiunque scriva sull’Otello, tutti i saggi teorizzano che questa tragedia shakespeariana può essere compresa perfettamente solo in America, proprio per l’esistenza della questione razziale».
Ma ci sono anche buffe curiosità come quella che avvenne durante la guerra del Messico nel 1846. Le truppe americane stanziate a Corpus Christi in Texas, appena annesso dal Congresso come stato schiavista, pensarono di mettere in scena l’Otello proprio prima di prepararsi alla guerra. Ma ovviamente mancava una donna che recitasse Desdemona. Pertanto, assieme a pochi altri Ulysses S. Grant, che poi sarebbe divenuto il diciottesimo presidente degli Stati Uniti, fu scelto per recitare in scena il ruolo di Desdemona. Quando tutte le speranze decaddero per la pessima interpretazione di tutti i prescelti, si decise di ricorrere ad un’attrice professionista. Scegliere un rude soldato per interpretare una donna di un certo contegno era un’assurdità, ma sottolineava come la popolarità di Shakespeare trascendesse le classi e le diversità regionali e di mentalità.
Lee Sandlin sul Wall Street Journal fa un esempio di come sia ancora viva e popolare la memoria del bardo, ricordando di avere visto in un piccolo parco di Chicago l’estate scorsa due ragazzini giocare con spade di legno ripetendo la scena di Romeo e Giulietta. «Stavano scoprendo con grande sorpresa e piacere che potevano scambiarsi i colpi di spada al ritmo dei versi. Sono passati circa 400 anni da quando sono stati scritti in una città che allora non era neanche un sogno. Shakespeare sta andando più che bene in America».
Dunque come scrive BJ Ward nel suo poema, incluso nell’antologia, Daily Grind, «La vita ordinaria rende le sue parole essenziali. In America Shakespeare è l’espressione più vitale del dramma comune».