La rassegna di Martina Franca
Ritorno a Casella
Il Festival della Valle d'Itria ripropone "La donna serpente" di Alfredo Casella. Un capolavoro (più per la musica che per il libretto) che mette insieme passato e futuro del Novecento
La Valle d’Itria, in Puglia, è zona collinare di trulli e ammalianti paesaggi. E Martina Franca, per il suo patrimonio di testimonianze e scorci di architettura barocca, è una cittadina che si fa percorrere soprattutto a naso in su. Non a caso il palcoscenico principale della manifestazione è nel cortile del Palazzo Ducale, la cui edificazione si avvia nel 1668. Ben degno di tale cornice, e da tempo consacrato a un rilievo nazionale, ha toccato la sua quarantesima edizione il Festival della Valle d’Itria, rassegna votata all’opera lirica nonché alla musica sinfonica e da camera. Fondato nel 1975 da una pattuglia di appassionati del luogo, radunati da Alessandro Caroli e sorretti dall’autorevole consiglio di Paolo Grassi – milanese di nascita e di vita, martinese di radici familiari e di cuore – fin dall’inizio il Festival si è contraddistinto su un indirizzo di tenace, ardito recupero di un repertorio operistico e di una prassi esecutiva misconosciuti.
A garantire nei successivi decenni la continuità di tale orientamento, la presidenza fin dal 1980 di Franco Punzi, cofondatore e già sindaco di Martina Franca, e la direzione artistica, via via nel tempo, di personalità quali Rodolfo Celletti, Sergio Segalini, e Alberto Triola dal 2010. Da molti anni, ormai, il Festival della Valle d’Itria ha scolpito la propria identità, vero punto di forza sempre dinamico: da un lato nel consolidare il suo peculiare profilo, dall’altro nel saperlo rinnovare di continuo con l’evoluzione di aspetti e forme realizzativi. Tre sono state le linee-guida fondanti: barocco, belcanto, scuola operistica pugliese-napoletana; recentemente, l’orizzonte si è aperto anche al filone del Novecento italiano, e all’opera contemporanea. Sicché il cartellone operistico di quest’anno ha offerto tre titoli: La donna serpente di Alfredo Casella (1883-1947), in coproduzione con il Teatro Regio di Torino, e poi Armida di Tommaso Traetta (1727-1779), e La lotta di Ercole con Acheloo di Agostino Steffàni (1654-1728).
La donna serpente è stata composta fra il 1928 e il ’31. Un prodotto, quindi, del Novecento storico italiano, periodo molto trascurato sul quale il Festival ha voluto puntare un focus, senz’altro apprezzabile come scelta di principio. Nella prima metà del secolo XX, Alfredo Casella è fra i protagonisti della musica europea. Pianista e compositore di fama, didatta, teorico, scrittore, in gioventù vive un soggiorno di quasi vent’anni a Parigi, che lo pone a contatto con esperienze internazionali e personaggi di avanguardia. Insofferente al teatro musicale di tradizione ottocentesca, verdiana e wagneriana, nella sua crociata contro il melodramma Casella propugna il recupero dell’antecedente tradizione musicale italiana, specialmente strumentale. Unica sua concessione, in quegli anni, alla musica per teatro, la stesura di alcune partiture per balletto. E al ballo erano in origine destinate le sue ispirazioni sul lavoro in questione.
La donna serpente trae soggetto e titolo da un fiaba del 1762 di Carlo Gozzi (1730-1806), drammaturgo veneziano dell’immaginario e dell’inverosimile, esperto nel mescolare fiaba e commedia dell’arte, farsa e tragedia. Giusto l’opposto del coevo Carlo Goldoni. Curiosamente Alfredo Casella – da sempre geniale nell’arte di orchestrare, di plasmare atmosfere visionarie e fantasiose, di divertirsi manipolando ritmi e contrappunto – con quest’opera approda al teatro lirico soltanto nella piena maturità, lavorando a alla partitura dal 1928 al ’31. E pensare che, ancora nel 1918, egli scriveva parole di fuoco contro il melodramma in genere, posseduto com’era da furori futuristi e iconoclasti… In ogni caso, proprio per guardarsi da qualsiasi remota suggestione di gusto verista o tardo-romantico, Casella pensa bene di debuttare mettendo in musica una fiaba, un vicenda quindi irreale e stravagante; sicché la musica rimane in primo piano, non condizionata dal contesto teatrale. E, per ricavare il libretto dal testo di Gozzi, il musicista incarica Cesare Vico Ludovici, modesto commediografo e sceneggiatore, orientato a uno stile moderno e surreale, affine alla vena compositiva di Casella.
Storicamente poche le messe in scena de La donna serpente. Dopo il debutto all’Opera di Roma nel 1932, essa è riapparsa alla Scala due volte, nel 1942 e nel 1959; dopodiché soltanto a Palermo, nel 1982, direttore Gianandrea Gavazzeni. Molto opportuna, quindi, la riproposta di Martina Franca. Il senso di un festival è proprio quello di offrire occasioni rare e particolari, indipendentemente dal giudizio di merito che se ne ricava. E il giudizio, diciamolo subito, è di profonda perplessità sul lavoro in sé, mentre l’allestimento e l’impegno degl’interpreti si sono fatti decisamente apprezzare. Ciò che difetta, in quest’opera di Casella, è proprio la funzionalità drammaturgica, la tenuta teatrale. Complice la discutibile qualità del libretto, l’insieme risulta comunque farraginoso e poco convincente. Manca infatti l’indispensabile amalgama fra teatro e musica, il connubio necessario che consenta alla partitura di compenetrare la vicenda, e di elevarsi complessivamente a indiscutibile prodotto d’arte.
La vicenda peraltro, come s’è accennato, riesce scombiccherata, macchinosa, e mal versificata. E la musica – pur pregevole, ovvio, trattandosi di tanto compositore – procede piuttosto per conto proprio, anziché coniugarsi al testo in mutua compenetrazione ed efficacia. La dimensione fantastica sollecita la brillante vena di Casella a diverse pagine di bella fattura: lunghi interludi, marce, insiemi buffi affidati a quattro personaggi in maschere da commedia dell’arte. Il tutto è ricamato in un’elegante tavolozza di colori e pastellature strumentali, ma alla fine la dimensione teatrale non decolla. E, a parte la struggente invocazione della protagonista all’avvio dell’atto terzo – in una scrittura vocale nella quale prevale il declamato melodico rispetto a qualche squarcio lirico – non sarebbe facile citare un episodio che si faccia davvero ricordare.
Detto dell’opera in se stessa, va sottolineato che la complessiva riuscita dello spettacolo, accolto dal pubblico con intenso calore, si deve anzitutto alla concertazione e alla direzione di Fabio Luisi. Sul podio dell’Orchestra Internazionale d’Italia, la bacchetta di Luisi ha tenuto autorevolmente in pugno la complessa macchina, orchestra e palcoscenico, trasmettendo a ognuno la sicurezza interpretativa di una lettura incisiva, energica, espressiva. La raffinata partitura, sotto le sue mani, ha così messo in luce un caleidoscopio di varietà coloristiche, nuances timbriche, chiaroscuri dinamici, in una linea di gusto garbato e insieme vivace. Sulla scenografia essenziale di Dario Gessati, fatta di blocchi a pareti inclinate che via via si aggregano e disgregano, sotto le luci di Giuseppe Calabrò la regia di Arturo Cirillo è riuscita a tracciare un movimento articolato e coerente, organico ai coloriti, fiabeschi costumi di Gianluca Falaschi. Nel nutrito e meritevole cast vocale, in evidenza i due protagonisti: Angelo Villari, Altidòr, e Zuzana Markovà, Miranda. Bene il Coro “Transilvania” di Cluj-Napoca, preparato da Cornel Groza, e straordinari gli interventi coreutici e mimici della Fattoria Vittadini, con Vilma Trevisan assai rimarchevole nei suoi movimenti serpentini.
Autentico splendore barocco nell’Armida di Traetta, datata al 1760, e apparsa a Martina Franca in prima esecuzione nei tempi moderni. Un esempio eccelso, questo sì, di teatro musicale, per la qualità della musica, e per la sua perfetta interazione drammaturgica con il libretto che Giovanni Ambrogio Migliavacca seppe riadattare dall’illustre originale di Philippe Quinault. Tommaso Traetta, che in suoi lavori successivi offrirà importanti contributi alla riforma settecentesca del melodramma, esibisce qui, oltre alla sapienza orchestrale, una scrittura vocale di stupefacente proprietà. Ed ecco emergere l’impeccabile prova del mezzosoprano Marina Comparato, nei panni maschili di Rinaldo, all’epoca affidati a un castrato; una specialista di questo repertorio, e non solo, che è apparsa una spanna sopra gli altri interpreti, per la lezione di tecnica, stile, gusto che ha saputo sfoggiare in più occasioni di estremo impegno. Volenterosa, e chiamata a vari momenti di coloritura acrobatica Roberta Mameli, soprano, interprete di Armida. Ma arie così lunghe, difficili, impegnative, esigono una tecnica e uno stile che non sono mai apparsi, spiace osservarlo, all’altezza della situazione, con esiti disomogenei nei colori e nell’espressività. Modesto l’Idraote di Leonardo Cortellazzi; onorevoli le prove di Federica Carnevale, Fenicia, e Maria Meerovich, Artemidoro. Direttore d’orchestra era Diego Fasolis, attento al dosaggio dei coloriti dinamici e alle esigenze espressive della concertazione. Approssimativa la soluzione scenica di Nelson Willmotte, fatta di cubi scale e parallelepipedi, nella quale non ha convinto la regia di Juliette Deschamps.
Rimane da dire del “divertimento drammatico” di Agostino Steffàni, La lotta di Ercole con Acheloo, datato al 1689, spettacolo magnificamente riuscito grazie a una compagnia di giovani interpreti. Il progetto è stato infatti preparato dall’Accademia di Belcanto “Rodolfo Celletti”, affiliata alla Fondazione Paolo Grassi, e ne ha messo in luce l’ottimo lavoro, allestito nel chiostro di San Domenico, spazio contenuto ma di profondo effetto. Qui Antonio Greco ha diretto con grande cura gli strumentisti dell’Ensemble Barocco del Festival, nonché le voci di Dara Savinova, Ercole, Federica Pagliuca, Deianira, e dei controtenori Riccardo Angelo Strano, Acheloo, e Aurelio Schiavoni, Eneo. La regia di Benedetto Sicca ha risolto molto bene il movimento dei personaggi, con raffinata proprietà e varietà di idee, e giovandosi anche della comprovata bravura di danzatori e mimi della Fattoria Vittadini. Il tutto su scene di Maria Paola Di Francesco, costumi di Manuel Pedretti, luci di Giuseppe Calabrò. Una produzione nata in seno proprio al Festival della Valle d’Itria e alle sue articolazioni didattiche e scientifiche, calorosamente premiata dal pubblico. Degno suggello di un panorama di attività, e di varie altre serate concertistiche, che hanno onorato al livello più alto l’importante compleanno del Festival stesso.