Una ricorrenza trasversale
Il Calvino dimenticato
Ritorno alle origini, ai racconti de "L'entrata in guerra" pubblicati sessant'anni fa, per cogliere il peso della formazione umana e letteraria del grande autore ligure
Trentenne, Italo Calvino si mise a ripensare a quando aveva sedici anni, quasi diciassette, a ricordare la fine della primavera del 1940 e quell’estate, la fine di quell’estate, ed Elio Vittorini, che dirigeva la collana einaudiana dei “Gettoni”, vide giusto, accettando di pubblicare, nel 1954, il libriccino che raccoglieva il trittico di quei suoi racconti autobiografici, L’entrata in guerra, poi ristampato nei “Nuovi Coralli”, vent’anni dopo. È bene precisare che esso fu inserito anche nel corposo volume antologico del 1958, I racconti, andando a rimpinguare una delle quattro sezioni dell’opera, quella dedicata a “Le memorie difficili”: per l’autore, era giunto il tempo in cui tutto aveva cominciato a farsi difficile – occorre saperne il perché –, e ne sono testimonianza i titoli di quelle sezioni: “Gli idilli difficili”, “Le memorie difficili”, “Gli amori difficili”, “La vita difficile”; tuttavia, tale collocazione impedisce di valorizzare l’unità poetica del trittico, che ne fa un romanzo mancato.
Spesso, prove più defilate svelano ciò che altrove, protetto dagli apparati difensivi di qualche opus magnum, era stato nascosto, e questo è il caso in questione: il caso di un capolavoro, e mi dispiace che nessuno se ne sia accorto, che nessuno attribuirebbe a questo tentativo di romanzo una tale qualifica, perché io lo farei, e questo giovanile Bildungsroman domanderebbe spazio ad altri libri di Calvino, piuttosto, li scalzerebbe, a quelli imparagonabile, per funzione: quelli ludicamente accessori, questo esistenzialmente necessario.
Se si volesse indulgere al vizio (conoscitivo) dei parallelismi, bisognerebbe richiamare Il diavolo sulle colline, opera di un amico (e scopritore) del nostro, perché il colore delle rispettive vicende adolescenziali li accomuna, ma qualcosa li separa: se L’entrata in guerra arriva ben prima della maturità dello scrittore ligure, il romanzo di Pavese, invece, anticipa di un paio d’anni appena il gesto finale del suo autore: quello fece intravedere una possibilità letteraria poi soppressa, un’ambizione biografica (e geografica) che fu sostituita dalla manìa geometrica (e biometrica) del Calvino adulto, questo fu una vacanza libera dal dovere dell’inattuabile ricreazione mitica della Storia, attorno alla quale lo scrittore delle Langhe non smise di arrovellarsi, nel rifiuto della secolarizzazione che (anche) le sue colline stavano subendo: di lì, da quell’inaggirabile fallimento, una produttività febbrile che impegnò il Pavese quarantenne ed estremo, prossimo a darsi la morte. Tre racconti o capitoli iniziali che alludono al romanzo che Calvino aveva intenzione di comporre e che lasciò perdere, L’entrata in guerra; secondo romanzo breve, Il diavolo sulle colline, del trittico La bella estate – di nuovo, la stagione che rimpiazza la primavera e ne brucia le promesse.
Il primo dei tre racconti calviniani, quello omonimo, si svolge nel giugno del 1940, e prende il via da un giorno preciso, dal 10 di quel mese: l’Italia è in guerra. Parte il conto alla rovescia, che terminerà più di tre anni dopo, con altro annuncio: la guerra è in Italia. Il secondo, Gli avanguardisti a Mentone, si sposta alla fine di quell’estate, a quel settembre. Il terzo, infine, Le notti dell’UNPA, consente un minore dettaglio, abbraccia tutta quell’estate: la loro successione nel volume non corrisponde alla datazione degli eventi, né alla composizione degli stessi racconti. «Ero un ragazzo tardo; a sedici anni, per l’età che avevo ero piuttosto indietro in molte cose. Poi, improvvisamente, nell’estate del ’40, scrissi una commedia in tre atti, ebbi un amore, e imparai ad andare in bicicletta»: l’incipit de Le notti dell’UNPA è rischioso e concede un timbro gioviale alla narrazione che andrà mantenuto, senza cadere, ma Calvino ce la fa, e l’equilibrio di questo e degli altri due racconti ha del miracoloso, è quello di chi va in bicicletta e non usa le mani, e saluta chi lo guarda passare. Quanta Liguria c’è, lungo tutte queste pagine: quella che mancherà, nel Calvino che seguirà; e ci sono Sanremo e Mentone, soprattutto. Con un senso di peccato, si leggono questi racconti: peccato che lo scrittore, poi, abbia preferito le mappe e le scacchiere, trascurato il suo mare, si sia accanito contro la riconoscibilità delle esistenze. Nessuna paura, ancora, per il Calvino trentenne: esporsi è possibile e non fa male, e non è ancora maturato in lui quel «rapporto nevrotico con l’autobiografia» che egli confesserà di avere, poi. Esperimento calviniano che gli ritorciamo contro: contro la fissità del reale, di questo reale, meglio provare varie combinazioni, ciò che è stato non era inevitabile, e poteva andare altrimenti. Allora, anche un altro Calvino sarebbe stato possibile, che non occultasse la propria malinconia, i propri stordimenti.
Esiste un terrore, quello dell’identificazione: di farsi scoprire, riconoscere, rintracciare, e si tratta di un atteggiamento bellico, proprio di chi ha attraversato certe esperienze, ha saputo apprezzare le virtù del travestimento. «Erano tempi in cui da noi non si sapeva ancora cosa fosse il terrore»: prima dell’entrata in guerra, cioè, o quando di essa non era ancora evidente la portata. Ma, forse, come in questi racconti, conta molto chi, per noi, ha rappresentato la vita, in anni cruciali: per Calvino, essa aveva il volto di Biancone, l’insostituibile compagno di questi frammenti autobiografici, l’amico forte che sembrava dominarla, la vita adulta, e che sparava balle, invece: oppure, grazie a lui e per colpa sua, era la vita stessa che si lasciava precocemente denudare, nella sua costituzione di illusioni, inganni e bugie.