La corruzione da Babilonia al Mose
Piccoli e grandi travèt della tangente
Giulio Cesare era un ladro, Demostene si sporcò le mani con un'Olimpiade e anche se Croce sosteneva che i corrotti non sono materia da storici, una frase di Rabelais rende quelli del passato quanto mai attuali: «Il vizio lo chiamano virtù, la cattiveria bontà, il tradimento lealtà, il ladrocinio liberalità; rapina è il loro motto: e tutto questo lo fanno con sovrana e irrefutabile autorità»...
Prima Milano (Expo), poi Venezia (Mose). La corruzione dilaga e si trasforma in una grande sberla sulle guance di milioni di italiani perbene. Crea nausea e imbarazzo. Ricordo (scusate il riferimento biografico) che qualche anno fa mi trovavo a Lisbona, che considero una delle più affascinanti città europee (dopo Roma, ovviamente). Ebbene, nella piazza di un barrio vidi decine di cartelli che citavano frasi dell’allora premier Berlusconi, irridendolo. Volevo quasi nascondermi perché coltivo l’orgoglio nazionale, sono uno (come altri milioni di connazionali) che si commuove con l’inno di Mameli. Hai voglia a ricordare le pagine più belle della nostra storia, da quella dell’antica Roma a quelle del Rinascimento… Niente da fare: sei lì e non puoi più giustificare la terra natale, infettata, marcia, spesso respingente (l’esodo dei migliori e più giovani cervelli italiani chiarisce molte cose). E nemmeno rammentare ciò che avviene nell’ottavo cerchio dell’Inferno dantesco, dove i corrotti, assieme agli indovini e agli ipocriti sono immersi in un gran lago di pece bollente, ammassati gli uni sugli altri. Il fuoco è eterno, e appena osano alzare la testa fuori del liquido appiccicoso, un’orda di demoni si getta su di loro con zanne e uncini, infilzandoli senza pietà e strappando loro lembi di carne.
L’immaginifica punizione di Dante è consolazione solo per la minuscola zona letteraria della nostra mente. Il viso arrossisce, c’è poco da fare. E c’è poco da ridere considerando che Venezia e Milano hanno una valenza internazionale: la prima è clamorosa ed eterna, mentre la seconda avrà l’anno prossimo la sua eco internazionale con l’Expo. Certo: la corruzione è sempre esistita. Dappertutto. E l’umanità si è in qualche modo abituata. «A chi importa se Giulio Cesare era un ladro?» si domanda Carlo Alberto Brioschi nel suo bellissimo libro sulla corruzione (Tea editore). A normalizzare il fenomeno ci hanno pensato molti personaggi dall’indole paziente e dallo sguardo storico più ampio della media. Il saggista americano John Jay Chapman sostiene che «la disonestà puramente finanziaria appare di scarsa importanza nella storia della civiltà». Washington Irving scrisse che la speculazione «è l’avventura romantica del commercio e svilisce tutte le realtà più sobrie. Fa dello speculatore di Borsa un mago, e della Borsa un motivo d’incanto».
Il nostro Benedetto Croce era del parere che «non appartiene allo storico soffermarsi sugli incidenti dei cosiddetti scandali bancari e sulle indagini intorno alle responsabilità e alle colpe, materia prediletta dei moralisti a buon mercato, adoperate a loro fini anche dagli oppositori. Perché affaristi, uomini politici poco scrupolosi e poco dignitosi, amministratori fraudolenti, impiegati infedeli o venali, o piccole o grosse rapine sono cose di tutti i tempi e di tutti i paesi…». Eh no, pur stimato caro Benedetto: la corruzione è un termometro sociale e come tale scrive la storia in quanto influisce sull’economia e sull’umore della gente (elemento non estraneo all’economia). Mi viene quasi voglia di buttare a terra i volumi crociani che sono nei miei scaffali, rammentando anche che Lei, illustre maestro, se ne stette nella penombra del suo studio quando la sua Napoli, prima città italiana, insorse contro i nazisti occupanti. Insomma, Lei ha scritto una grande scemenza. Che la corruzione abbia dimensioni planetarie lo sanno anche gli idioti (almeno me lo auguro). Il dignitoso e arguto destrorso
Prezzolini gli fece eco: «Che importa insomma se Napoleone fu un tiranno crudele ed egoista? Per un seguace dello storicismo, secondo cui, Napoleone è quella forza umana che diffuse i principi della Rivoluzione francese in tutta Europa. L’egoismo e la crudeltà sono questioni che riguardano la sua coscienza o il suo confessore, non lo storico». Sarebbe il caso di opporgli una frase di Laerzio: «Sono i grandi ladri che fanno impiccare i piccoli». Oltretutto, nel caso di Venezia e di Milano, non siamo certo al cospetto dei «piccoli travèt della tangente» (suggestiva frase di Fruttero e Lucentini). A pagare, in specie nel caso della città dei Dogi, siamo tutti noi, contribuenti fessi e “mazziati” (censuro, nel modo di dire partenopeo, la parola “cornuti”: questi sì, son fatti privati). Credevamo che Tangentopoli si risolvesse in una svolta. Sbagliato. A proposito dei togati milanesi, conviene ricordare quanto scritto dallo storico Ginsborg: «…nel 1992-’93 un gruppo minoritario di magistrati italiani, guidato dalla Procura milanese, tentò di spezzare il circolo vizioso della corruzione nella vita pubblica. Talvolta quei magistrati usarono mezzi discutibili o commisero degli errori; quasi sempre le loro iniziative causarono tragedie personali di piccola o grande portata. Nondimeno sarebbe difficile concludere che essi agirono in malafede o negare la straordinaria importanza del loro contributo alla vita pubblica italiana».
Spesso, a connotare corrotti e corruttori si tira in ballo Babilonia, diventata parola-simbolo. Era una delle più grandi città del mondo, sulla riva sinistra dell’Eufrate e fondata dai Sumeri. Molti, troppi babilonesi, come disse un profeta, «opprimevano i poveri e li mettevano alla mercé dei potenti. Nella città c’era oppressione e si accettavano offerte. Ogni giorno insensatamente si rubavano a vicenda le proprietà». Le parole stesse che vanno a significare la corruttela indicano l’universalità del fenomeno. Gli Egizi parlavano di feqa, i mesopotamici di tatu, la Bibbia di shohadh, gli arabi di arracchua, i greci di doron, i latini di munus (che in molti casi è lemma positivo), i francesi chiamavano le mazzette pots de vin, ossia di mancia indiretta destinata a oliare certi meccanismi, gli inglesi di bribe o di sleaze, mentre i tedeschi usano il termine Bestechen (da Stechen, ossia pungere, conficcare) o di Schmieren (da Schmiere, ossia grasso, olio che lubrifica). Singolare quanto scrisse il critico Octavio Paz: «Una nazione inizia a corrompersi quando si corrompe la sua sintassi». E il sociologo De Rita: «Abbiamo anche una vocazione a un’illegalità minuta».
La virtuosa antica Atene, culla della civiltà occidentale (io oserei dire mondiale), ebbe le sue pagine buie. Il tanto osannato Demostene, che a scuola abbiamo incontrato come potente oratore allenatosi a declamare parlando ad alta voce dinanzi al mare e con sassolini in bocca, proprio nel 324 a.C., inizio di una nuova Olimpiade (forse paragonabile all’Expo di Milano) fu al centro di uno scandalo e fu condannato alla fuga. Rientrato ad Atene dopo l’esilio, si tolse la vita, lasciando ai posteri questo motto: «Invidiare chi si lascia corrompere, ridere se lo si riconosce apertamente, assolvere chi è stato colto in flagranza di reato, odiare chi vorrebbe metterlo sotto accusa». Eppure anche uno come l’omerico Ulisse, che piace così tanto perché simbolo dell’astuzia, fu in realtà un geniale truffatore, un mentitore nato in quanto discendente da Hermes, il dio fraudolento e ingannatore per antonomasia, nonché nipote di Autolico, incallito ladro. Soflocle, nel suo Edipo re, così recita: «Oh ricchezza, dominio, arte di ogni arte vittrice! In questa invidiosa vita, quante invidie è fatale a voi si volgano… il mio più vecchio amico occultamente contro di me striscia, artefice di frodi, che solo nei guadagni chiaro scorge». Conosce forse questo sublime passo l’ex governatore del Veneto ed ex ministro Galan?
Sul rischio-abitudine, bene si espresse il francese Rabelais: «Il vizio lo chiamano virtù, la cattiveria bontà, il tradimento lealtà, il ladrocinio liberalità; rapina è il loro motto: e tutto questo lo fanno con sovrana e irrefutabile autorità». Parole che paiono scritte su un giornale di questa settimana. Anche l’America, terra di opportunità, non è immune dalla corruzione. Lo scrittore James Ellroy ha detto che «non è mai stata innocente; abbiamo perso la verginità sulla nave durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto». Bella frase, salvo che si dà per scontato che i nativi americani siano stati tutti puri e duri. Più realisticamente (o ironicamente?) il narratore Ambrose Bierce, nel suo Dizionario del diavolo (1906) sostenne che la disonestà è un «importante elemento per il successo in affari, cui le scuole commerciali non hanno ancora riconosciuto la dovuta preminenza tra le materie di insegnamento, sostituendola indegnamente con l’arte dello scrivere. La disonestà è la migliore linea di condotta». Scuole a parte, in Italia innocenti, sta di fatto che gli eventi accaduti a Venezia e a Milano mettono sulle bocche della nuova generazione considerazioni tristi. Come: «Ma sì, vado a votare, tanto non cambia niente, è tutto un magna-magna». Insomma, la corruzione non è da considerare alla stregua di un virus facilmente isolabile dagli scienziati.