Un libro da non perdere
Il Dante di Borges
Adelphi ripubblica i saggi danteschi del grande scrittore argentino. Che lesse la Divina Commedia come un sogno terribilmente concreto e umano
L’atto del comporre letterario, e, prima ancora, del suo farsi nella mente di un autore (o di più autori, magari, al di là di labirintiche voragini temporali), ha una presenza centrale, nell’opera dell’argentino Jorge Luis Borges: autore di cui sembra ormai essersi non poco appannata la rinomanza, alta, nella seconda metà del secolo appena trascorso, al punto da condurlo a un passo dal Nobel, che solo lo scarso progressismo delle sue posizioni politiche, di fatto, gli precluse.
Non fa dunque meraviglia che anche quando gli accade, come testimoniano i Nove saggi danteschi (Adelphi, 2011, pp.176, € 13.00) di accostarsi alla Commedia – con pazienza quasi accanita: «leggevo prima un brano, una terzina, in prosa inglese; poi leggevo lo stesso brano, la stessa terzina, in italiano: continuavo così fino alla fine del canto. Quindi leggevo l’intero canto in inglese, poi in italiano. […] A dire il vero non conosco l’italiano, non conosco altro italiano che quello che mi ha insegnato Dante, […] la somiglianza fraterna dell’italiano con lo spagnolo» – la sua sensibilità di lettore si sia concentrata soprattutto su Dante stesso, in quanto autore che intesse la sua trama. Meglio ancora, che la “sogna”, benché a Borges non sfugga che il sonno di cui Dante si dice pieno… a quel punto / che la verace via abbandonai non va inteso ingenuamente in senso letterale, ché «è metafora dell’offuscamento dell’anima peccatrice» (ma pure, non riesce a impedirsi di chiosare che esso «suggerisce l’indistinto atto dell’inizio del sognare»).
Non è dunque tanto la sanguigna, smagliante gamma di umane passioni che Dante mette in scena attraverso le parole con cui, di volta in volta, le anime gli si presentano, ad attrarre l’attenzione di Borges, ma proprio lui, Dante, che «pone Francesca nell’Inferno e ascolta con infinita compassione la storia della sua colpa. […] Dante racconta con una pietà così delicata la colpa di Francesca che noi tutti la sentiamo inevitabile», dove l’accento non cade tanto su ciò che Francesca prova, ma sul modo in cui Dante fa di lei – come, poi, di Ugolino – «una trama verbale»: giacché, ricorda ancora Borges, «Robert Luis Stevenson osserva che i personaggi di un libro sono filze di parole».
E di tutto l’episodio di Ugolino, infatti, ciò che meglio sembra a Borges essere riuscito, è l’umbratile ambiguità dell’espressione poscia più che ‘l dolor poté ‘l digiuno. «Negare o affermare il mostruoso delitto di Ugolino è meno tremendo che intravederlo. […] Così, con due possibili agonie, lo ha sognato Dante e così lo sogneranno le generazioni future». Dove ancora, e sempre, l’atto letterario è assimilato al sogno, e, allo stesso tempo, ci si inchina al valore poietico dello scrivere, che fissa una volta per sempre l’infinito ripetersi di una uguale armonia.
E anche dal punto di osservazione del canto di Ulisse, Borges ritorna a focalizzare l’attenzione sul gesto creatore di Dante: «più d’una volta la stesura della Commedia gli sarà parsa non meno ardua e fatale, dell’ultimo viaggio di Ulisse. […] Dante fu Ulisse e in qualche modo poté temere il castigo di Ulisse».
Fino a che, partendo dall’ultimo sorriso di Beatrice nell’Empireo, è l’intero poema, nella sua ragione genetica, ad essere ricondotto – forse mancando a Borges una sufficiente attenzione alla complessa carica profetica del Dante politico-moralista, e del valore salvifico, nonché culturale, da lui assegnato alla sua opera, non a caso scritta in volgare, perché a tutti potesse meglio arrivare – nell’animo stesso di Dante, nel nucleo incandescente della sua passione: «Penso che Dante abbia edificato il miglior libro della letteratura per introdurvi alcuni incontri con l’irrecuperabile Beatrice […] un sorriso e una voce che lui sa perduti sono il fatto fondamentale. […] Per sempre assente da Beatrice, immaginò la scena per immaginarsi con lei». Che è, a pensarci bene, uno splendido scarto da narratore, da scandagliatore della mente umana.
E se possiamo rimanere perplessi, di fronte allo sforzo di Borges per ricondurre – in un altro saggio – se non la genesi del poema, quanto meno la sua architettura spazio-ideologica, al precedente storico della narrazione di Beda il Venerabile, o l’Aquila del cielo di Giove al persiano Simurg, cui Borges stesso allude in diversi punti della sua opera, certo questo tributo, da parte di un autore «venuto dalla fine del mondo» come qualcun altro più di recente, al nostro maggiore poeta, può magari risultare meno profondo di quanto ormai lo scaltrirsi del nostro sguardo critico ci ha abituato ad aspettarci; ma sicuramente ci appare, forse anche di più, commovente; o soltanto come avventura culturale, insolitamente accattivante.