Ildefonso Falcones stasera nella Capitale
Essere flamenco
“La regina scalza”, ultimo recente successo dello scrittore catalano protagonista stasera a Piazza del Campidoglio di “Letterature - Festival Internazionale di Roma”, è un'immersione nel mondo gitano dell'Andalusia, capace, attraverso la vicenda di Milagros, di mettere in discussione il nostro preordinato vivere quotidiano
Il mondo che emerge dall’ultimo, poderoso romanzo dello scrittore catalano Ildefonso Falcones intitolato La regina scalza (Longanesi, trad. Roberta Bovaia e Silvia Sichel, 698 pagine, 19,90 euro), è sconosciuto e affascinante in confronto al sistema rigido e preordinato del nostro vivere quotidiano. È il mondo dei gitani che nel XVIII secolo popolavano l’Andalusia, soprattutto Siviglia e Triana, ma anche altri luoghi della Spagna, essendo i gitani tendenzialmente nomadi. È un mondo privo di confini dove si mangia, si beve, si commercia, si ama, si odia, si veglia alla fiamma di fuochi sempre presenti. Nessuna nostalgia, rimpianto o paura lo turbano, perché il futuro è l’immediato domani e il passato svanisce con le chiacchiere notturne.
Valori antitetici alle norme sociali comuni rendeva fin da allora impossibile l’assimilazione. Tra questi, «la libertà di agire secondo il proprio desiderio e interesse», come spiega Falcones, ospite oggi, 27 maggio, di “Letterature – Festival Internazionale di Roma” (ore 21 Piazza del Campidoglio). Eppure «nella Spagna dell’Inquisizione, delle missioni e del fervore religioso, i gitani, da sempre accusati di essere miscredenti, empi e irriverenti», non sono stati perseguitati. A causa del loro stile di vita hanno subito ingiustizie, discriminazioni, vessazioni da parte delle istituzioni, dei magistrati, dei religiosi, ma sono riusciti comunque a sopravvivere con una capacità di adattamento che non escludeva che si facessero beffe «delle autorità e dei loro costanti sforzi per reprimerli».
Payos chiamavano i bianchi, contadini, villani, un termine dispregiativo. Per i gitani la società in cui erano costretti a vivere, era un groviglio confuso di norme inspiegabili. Perché l’autorità li agguantava e li metteva in prigione quando per la loro legge erano innocenti? Perché poi veniva loro incontro capricciosamente dopo aver calpestato ogni diritto?Per Milagros, la giovinetta quindicenne principale protagonista del romanzo insieme al nonno materno Melchor, tutto ciò è oscuro e contraddittorio. Con orgoglio ribadisce la sua origine gitana, fiera del cognome ereditato dalla madre secondo la loro tradizione. Una visione netta, limpida tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Ma Milagros è inesperta, non possiede ancora l’intuito infallibile nel riconoscere i buoni e coloro che non lo sono; quella sorta di capacità sensitiva che aiuta il nonno, contrabbandiere di tabacco, sopravvissuto alle galee, «gitano libero e insolente», capace di prendersi gioco dei soldati, a destreggiarsi nel suo difficile cammino. È bella Milagros, «allegra, affascinante, astuta, gioiosa… innocente e virginale!», come pensa fra Joaquìn, quando la ritroverà dopo svariate peripezie, sconfitta, ubriaca, prostituta; lei la “regina scalza”.
Una feroce faida divide Melchor Vega dai Garcia. Non mancano risse e coltelli perché cruenti sono i rapporti che regolano la loro comunità. È pretesa una fedeltà totale dalla donna, ma l’infedele anziché essere uccisa, più civilmente viene ripudiata. Le vendette poi si compiono in silenzio com’è nella regola e spesso è sufficiente il risarcimento in denaro. Riguardo al repertorio di pratiche magiche e divinatorie a causa delle quali i gitani furono perseguitati fin dalla loro comparsa nell’Europa occidentale nel XV secolo, doveva avere una notevole rilevanza tra le loro credenze. Nella Spagna del secolo XVIII le praticavano a beneficio dei payos creduloni che amavano farsi predire denaro, successo e potere, valori per loro privi di senso. Perché il prestigio di un uomo era valutato in base all’esperienza acquisita, alla saggezza, all’abilità nel commercio dei cavalli, nel forgiare ferro e metalli, nel contrabbando di tabacco. I gitani non avevano religione e se mai l’avessero avuta si è persa nel tempo. Qualche traccia di antichi culti è rintracciabile nell’importanza che essi attribuiscono al cavallo, animale un tempo sacro. Il flamenco che danzano i gitanos della Spagna meridionale ricorda il battere degli zoccoli.
E il flamenco insieme al canto accompagna la vita di personaggi indimenticabili che balzano dalla scenografica narrazione dello scrittore spagnolo come fossero vivi. Caridad, la schiava nera, liberata, la cui vita si intreccia indissolubilmente a quella del rude gitano Melchor, è una di questi. Ma cosa è il flamenco? Nessuna definizione è più incisiva delle pagine di questo romanzo.«Ed essere flamenco è così:/ è avere carne, cuore, passioni,/ pelle, istinti e desideri diversi; è un vedere diverso/ con i sensi all’erta;/… libera fierezza,/ allegria tra le lacrime,/ il dolore, la vita e/ tinto di maliconia l’amore…». All’adesione spontanea, totale all’esistenza e alle sue leggi incerte si contrappone appunto una fuga continua, che lungi dall’essere casuale, segue tragitti già battuti. Contraddizione o saggezza? Evitando i disagi della convivenza si smorzano gli attriti a vantaggio della coesione e della solidarietà di gruppo. Un fatalismo senza limiti l’accompagna, retaggio dell’origine orientale dei gitani; addolcisce gli aspetti aspri dell’esistenza perché non c’è paura se le persone hanno tutte un destino.