In ricordo di un grande autore
Omaggio a Mazzacurati
"La sedia della felicità", il film postumo del regista appena scomparso, è un omaggio alla leggerezza. E alle piccole virtù della provincia italiana
L’altro giorno sono andato al cinema per vedere l’ultimo film di Carlo Mazzacurati : La sedia della felicità. Ultimo nel vero senso della parola perché, come tutti ricordano, il regista è scomparso prematuramente (era del ’56) a Padova nel Gennaio di quest’anno. Naturalmente ero piuttosto curioso – che lo si ammetta o meno, è cosa inevitabile – considerando che è questa la sua ultima opera, che l’ha girata mentre era già malato (e lo sapeva), e, come se non bastasse, che l’uscita del film è avvenuta dopo la sua morte. Purtuttavia, come si vede da quest’elenco, c’erano anche tutti gli ingredienti per temere un’operazione commerciale di sfruttamento della situazione.
Com’è, come non è, ho trovato il film molto, ma molto carino. Leggero, ma non gratuito. Accattivante, ma non furbo. Pieno di garbo, di simpatia, e di vera e propria allegria. La trama – questa non particolarmente originale a dire il vero – non cede attenzione un minuto e si fa seguire con il giusto equilibrio di suspence e di divertimento. L’ambientazione è quella, tradizionale per Mazzacurati, della provincia italiana e del Veneto in particolare che lui conosceva tanto bene essendo padovano (anzi: “padoano”) di nascita. E bisognerà forse un giorno rendere merito a questo nostro cinema che continua, nonostante il sempre più tiepido interesse della critica ufficiale, a fornire prove di tutto rilievo e interesse nella descrizione di una provincia che, nel solco della tradizione italiana, continua tutt’oggi a essere uno degli aspetti fondamentali del paese. Penso, per fare un solo esempio al recente e più che riuscito bel film di Virzì Il capitale umano.
Qui non troverete il graffio e la sotterranea disperazione di quest’ultimo, qui il tocco è più delicato, le atmosfere più garbate e sorridenti, e se pure pieno d’ironia, c’è un lato affettuoso che accompagna la narrazione. Sembra quasi che al momento di voler lasciare questo assurdo mondo, l’autore abbia posto una cura particolare (e ulteriore, visto che il garbo già era la sua cifra), a non voler lasciare conti in sospeso distribuendo un’indulgenza plenaria alle, peraltro evidenti , miserie umane.
Particolarmente riuscito poi è l’intarsio, all’interno della trama principale, di tante piccolissime ministorie appena accennate che, come nei quadri Jeronimus Bosch (ma sorridente, e senza quella drammatica spigolosità fiamminga), fanno da contorno prezioso e colorato alla trama principale: e, a proposito di colore, qui non paia troppo, voler ricordare la lezione dell’antica scuola di pittura veneta.
La storia, tratta da una nota novella russa, racconta di tre teneri personaggi che sperano di cambiar vita e risolvere i loro problemi nella ricerca di un tesoro nascosto in una sedia finita chissà dove. Perfettamente misurato è l’uso che la regia fa di Valerio Mastandrea, il protagonista, che senza nessuno sforzo e senza nessuna sottolineatura di una romanità trasparente e irresistibile, fa da perfetto contraltare, ironico e umano, a certi tic e a certe ingenuità provinciali visti con uno sguardo in fondo indulgente o comunque privo di ogni accanimento. Rimarchevole, sempre credibile e mai fuori tempo, solare, spensierata anche nelle situazioni drammatiche proprio come il suo personaggio, è Isabella Ragonese. Bella e convincente, come sempre, la prova di Giuseppe Battiston. Deliziosi i cammei di Antonio Albanese, Fabrizio Bentivoglio, Roberto Citran, Silvio Orlando, Katia Ricciarelli e Milena Vukotic: vere prove di un affetto e di una stima verso il regista che appaiono proprio ben riposte dopo aver visto questo film.